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diVENERDÌ PENSIERI E PAROLE IN PILLOLE

DUBBI

Il Consiglio Comunale di Jesi, con una maggioranza ampia e trasversale, ha detto no al mega distributore in Via Berlinguer.

Sia ben chiaro, ciò non significa che il pericolo del “mostro” è scongiurato; la palla ora passa al Tar, che presumibilmente nominerà un Commissario chiamato ad esprimere l’ultima parola.

In questo contesto di unità di vedute, risalta la decisione di astenersi da parte dei quattro consiglieri del Partito Democratico.

Scelta ovviamente legittima, ma la motivazione lascia più di una perplessità. In sostanza hanno dichiarato di non essere nelle condizioni di scegliere tra gli interessi dell’ imprenditore e quelli della collettività.

Un artifizio naif degno dei migliori pittori fiamminghi. Del “ma anchismo” di Veltroniana memoria è evidentemente tornato nei cuori dei Democrat. Figuriamoci poi, sono rimasto legato a quell’idea per cui, chi siede in Consiglio deve provare a trovare soluzioni di fronte alle criticità, non dissipare dubbi. Mi sento davvero vintage.

 

BOTTI

San Silvestro è ancora lontano, ma in Città i botti sono iniziati a scoppiare con largo anticipo.

Niente fuochi pirotecnici, ma bande di ragazzotti che si esaltano nell’ascoltare il “boom”, con l’intento pienamente centrato di spaventare passanti e animali di casa.

Al bando i perbenismi, in quell’età in cui i pensieri sono davvero pochi, è capitato anche a me di far scoppiare petardi, ma i tempi e un filo di buona educazione ci imponevano altre regole. Andavamo da “pagnotta” o dal “Bresciano”, accompagnati da un genitore, e si arrivava all’acquisto di dieci raudi, solo se il compito di matematica era stato almeno sufficiente; altro che i grandi ordini on line. Facevamo scoppiare il boato lontano dal passeggio, perché eravamo consapevoli di arrecare disturbo, e il rischio di un calcio nel sedere era concreto. Se da qualche balcone, una signora ci lanciava imprecazioni, ce la davamo a gambe, coscienti di aver fatto una marachella. Oggi, gli “amichetti delle micce” ti guardano con aria di sfida, e dopo averti fatto sobbalzare all’improvviso, sono pronti a ripetere la scena. Cari miei piccoli dinamitardi contemporanei, se davvero non avete meglio da fare, almeno usate un po’ di stile. Grazie.

 

IL GUARDAROBA

Ogni anno è sempre la stessa storia; mettere mano al guardaroba per il cambio di stagione a casa Pigliapoco è un vero rompicapo.

Immancabili i trentasette sacchetti alla lavanda, con il profumo che dopo due ora passa a miglior vita, e quell’imperativo che mi fisso bene in testa: “via tutti gli indumenti che non si utilizzano più”. Per prima cosa prendo tutte le polo estive, e le butto alla rinfusa nello spazio dell’armadio più lontano, praticamente in un’altra stanza; a loro penserò nella prossima primavera.

Poi passo all’analisi degli abiti invernali, con le buste pronte per la raccolta. Con quel maglione la mia squadra del cuore non ha mai perso, non si tocca. Questa camicia è veramente brutta, ma chissà, può tornare di moda. A quel gilet manca una x, ma un giorno potrei dimagrire. Il cardigan me lo ha regalato la mia amica Mafalda, troppi ricordi. La felpa nera, dopo duecentodiciotto lavaggi è diventata grigio pallido, ma è comoda. Gli attaccapanni iniziano a cadere, mentre ritrovo la cuffia col pon pon della vacanza in montagna del 1990. Dopo due ore, pur di far spazio ai nuovi arrivi, mi travesto da ministro Padoan mentre prepara una finanziaria qualunque, e mi impongo dei tagli strutturali. Bene, i malcapitati sono sempre i pigiami. Dovrò dormire qualche giorno in mutande, ma non appena la mia cara mamma si accorgerà del danno, provvederà a comprarne almeno dodici nuovi, pronti ad essere archiviati l’anno successivo.

 

PRECISAZIONI DOVEROSE

Un amico mi ha chiesto un parere sulla situazione della Fondazione Pergolesi.

Tranquillo, non ho competenze in merito, quindi non mi esprimo.

Altre persone mi fanno sapere che attendono un mio pensiero sulla questione “Jesi Città regia”. Passo volentieri la mano, questo dibattito non mi affascina. Per alcuni nei mie scritti del Venerdì emerge la mia anima “sinistra”, per altri sono evidenti le sbandate a destra.

Ringrazio davvero tutti per le immeritate attenzioni, ma vorrei chiarire alcune cose. Scrivo questa rubrica con grande piacere, senza dover rispondere a nessuno, e sarà così finche “l’editore”, ovvero QdM, mi concederà questa straordinaria libertà. Con l’ironia di cui dispongo provo a raccontarvi ciò che vedo intorno a me, descrivo qualche mio tormento, provo ad esaltare le bellezze della mia terra, e sottolineo ciò che non mi piace. Odio i tuttologi, e i dispensatori di verità ad ogni ora. Non voglio creare opinione, ma soltanto suscitare un pensiero mescolato ad un sorriso. Così è se vi pare … poi se apprezzate la mia scrittura, evviva.

 

ANDREA CAMILLERI CI RACCONTA: “IL GIORNO DEI MORTI!”

 

“Fino al 1943, nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa siciliana dove c’era un picciliddro si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi col linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi nicareddri, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.

Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all’alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. Mai più riproverò il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o darrè una porta scoprivo il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi. Avevo 8 anni quando nonno Giuseppe, lungamente supplicato nelle mie preghiere, mi portò dall’aldilà il mitico Meccano e per la felicità mi scoppiò qualche linea di febbre.

I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come viscotti regina, tetù, carcagnette. Non mancava mai il “pupo di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere e con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciliddri era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». Domanda che non facemmo a Tatuzzo Prestìa, che aveva la nostra età precisa, quel 2 novembre quando lo vedemmo ritto e composto davanti alla tomba di suo padre, scomparso l’anno prima, mentre reggeva il manubrio di uno sparluccicante triciclo.

Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine.

Poi, nel 1943, con i soldati americani arrivò macari l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.”

Bei ricordi di bambino… per questo motivo le scuole chiudevano…

perché la visita ai nostri morti era sacra!

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