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Chiaravalle

CHIARAVALLE Marina esce dall’incubo, guarita dal virus

La poliziotta chiaravallese è stata ricoverata 15 giorni al “Carlo Urbani: «Non dimenticherò mai gli occhi di medici e infermieri»

CHIARAVALLE, 22 aprile 2020 – «Gli occhi degli infermieri e dei medici, i loro sguardi sensibili, la loro incredibile umanità: sono questi segni che mi porterò sempre nel cuore, che non dimenticherò mai».

Marina Abbruciati ha 54 anni, è di Chiaravalle, e da 31 anni è poliziotta presso la Questura di Ancona, con la qualifica di Assistente Capo Coordinatore all’ufficio immigrazione.

È uscita da pochi giorni da un incubo e dal reparto Covid 3 dell’ospedale “Carlo Urbani” di Jesi. Ha passato giorni durissimi, momenti dove nessuna luce sbucava da quel tunnel nero, ha tremato, ha pensato al peggio ma alla fine ha vinto la sua battaglia contro il virus maledetto.

A Chiaravalle, Marina Abbruciati la conoscono tutti: la sua famiglia è apprezzata e stimata, il padre Romano era un chiaravallese eccezionale, uno di quelli che hanno fatto crescere la città. Lei ripensa ai giorni difficilissimi della malattia.

Marina Abbruciati

«Ho cominciato ad avere febbre alta il 28 marzo e ho avuto sentore fin da subito che non si trattava di una febbre come l’avevo avuta altre volte. Non sono riusciti a farmi il tampone ma poi grazie a Claudio Medici, il mio bravissimo medico di famiglia, mi hanno sottoposto a una radiografia che ha subito evidenziato gravi problemi ad entrambi i polmoni».

Da questo momento la chiaravallese è entrata in un incubo che sembrava diventare ogni giorno più nero.

«Mi hanno immediatamente ricoverata al prontoorso di Jesi e quello è stato il momento più duro: mi hanno tolto tutto, la fede, gli orecchini, tutti i vestiti, sono restata solo in biancheria intima. Non ho avuto neppure il tempo di salutare mio marito Roberto che è sempre stato in trepidante attesa. Mi volevano perfino togliere il cellulare ma poi, per fortuna, mi hanno concesso di tenerlo».

E a quel telefono Marina Abbruciati si è aggrappata, come se fosse l’unico mezzo che la facesse sentire ancora attaccata alla vita.

La poliziotta e le videochiamate con i familiari

«E in effetti grazie al cellulare sono riuscita a mantenere i contatti con l’esterno, con i familiari, i colleghi, gli amici, anche se mi avevano subito trasferito nel reparto Covid 1 del “Carlo Urbani”. Mi hanno applicato una maschera molto fastidiosa da tenere, ero spesso a letto in posizione prona per consentire una migliore ventilazione polmonare o stavo seduta. Le ore non passavano mai: mi svegliavo alle 4,30 e mi imponevo di non pensare al peggio e di lottare. Il cellulare è stato il mio compagno fedele: le videochiamate con Roberto e le mie figlie Nikita e Annika, con i familiari, sono state importanti come le tante terapie a cui mi hanno sottoposto. Psicologicamente è stata davvero molto dura: l’isolamento, la paura di non farcela».

La donna è sempre stata sportiva, ha giocato a pallavolo, non ha mai fumato.

«Non so come e dove possa essere stata contagiata. So però che è stata durissima uscirne. Una cosa non dimenticherò mai: quegli occhi buoni e comprensivi di medici e infermieri. Se sono viva lo devo soprattutto a loro».

Gianluca Fenucci

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