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Cingoli

CINGOLI Teresa Latini racconta il “suo” Covid-19: «È stata dura, ma sono fortunata»

Il diario dei 50 giorni negli ospedali delle Marche della stimata ex docente cingolana, contagiata insieme al marito Paolo

CINGOLI, 20 maggio 2020 – Si sentono tante storie sui malati da Covid-19, ma poche analizzano il punto di vista dei contagiati, trasferiti da ospedale a ospedale, costretti alla respirazione artificiale e supportati dai nuovi “eroi” degli ospedali italiani, quali medici, infermieri e operatori sanitari.

Abbiamo raccolto la testimonianza della professoressa Teresa Latini, che ha trascorso ben 50 giorni con il coronavirus in corpo in giro per le strutture delle Marche. È tornata guarita a casa a Cingoli proprio sabato scorso, 16 maggio, come anticipato con la lettera pubblicata domenica scorsa.

Chi è la professoressa Teresa Latini

Teresa Latini è nata in Belgio da Luigi, cingolano emigrato per lavoro a Marcinelle, in un primo periodo proprio nella nota miniera tristemente nota alle cronache per la tragedia dei lavoratori italiani morti l’8 agosto 1956, e da Lucienne Gonset, abitante proprio di Marcinelle. Teresa è stata docente in inglese e francese nella scuola secondaria di I° grado nell’Istituto Comprensivo “Enrico Mestica”.

Il suo amore per Cingoli l’ha portata a ritornare nella sua terra d’origine per sposare Paolo Stramazzotti: anche lui ha contratto il Covid-19. Ha due figli. Da qualche anno è andata in pensione, ma tanti ragazzi cingolani la ricordano con affetto, essendo stata una delle insegnanti più “carismatiche” dell’intera scuola.

È anche presidente dell’Accademia Labiena, nota associazione culturale attiva con il premio letterario “Gli Anni Verdi” per gli studenti delle scuole di Cingoli. Negli ultimi anni, inoltre, insegna le lingue straniere all’università della Terza Età dell’Alto Maceratese al Circolo Cittadino locale.

La professoressa Teresa Latini

Diario dei 50 giorni con il Covid-19: Macerata

Ha contratto il Covid-19 nell’ultima settimana di marzo. «Sono stata ricoverata – spiega la professoressa – dal 118 di Cingoli insieme a mio marito Paolo nel container del pronto soccorso di Macerata, perché a Jesi non c’era posto. Siamo arrivati nel pomeriggio di sabato 28 marzo, solo alle 24 mi hanno fatto il tampone e le radiografie, dove si capiva che eravamo entrambi positivi al coronavirus. Io sono stata trasferita al reparto di medicina d’urgenza dell’ospedale di Macerata il giorno dopo, domenica 29, mentre mio marito è stato dimesso pur essendo contagiato».

La degenza a Camerino

La professoressa è stata trasferita al reparto Covid di Camerino il 30 marzo. «Sono stata contenta – continua – di essere stata trasferita lì, perché sono stata trattata veramente bene. Ero degente prima nell’ex reparto di ortopedia con la dott.ssa Gabriella Mazzoli, una figura veramente gentile, professionale e unica: non appena sono arrivata, mi ha parlato e mi ha rassicurato, per esempio dicendomi che mi avrebbero lavato i capelli e che mi avrebbero fornito delle riviste da leggere. Martedì 31 mi hanno messo una maschera chiamata Cpap (continuos positive airway pressure) per la ventilazione assistita, che era molto stretta, mi faceva male e respiravo malissimo».

È stato quindi necessario un altro trasferimento, questa volta, però, nello stesso nosocomio camerte. «Il primo aprile – ricorda la professoressa – mi hanno comunicato il mio passaggio al reparto semi-intensivo a causa dei miei problemi respiratori, chiedendomi anche un numero di telefono di un mio familiare per poter avvisare. Mi hanno quindi fatto indossare una maschera a ventilazione non invasiva, che pratica una specie di ginnastica dei polmoni per attivarli al massimo. Dovevo stare a pancia in sotto ed è una cosa che avevo molta difficoltà a fare, però non avevo altra scelta, essendo intubata».

Il cartellone preparato dagli amici al rientro a casa

L’ex docente ha comunque trovato un ambiente accogliente. «Mi si è avvicinata – chiarisce – la dottoressa Castelli, figlia di una mia ex-collega docente ad Appignano, che era andata in pensione ma è tornata per dare una mano nell’emergenza Covid-19. Ho trovato anche la dott.ssa Eleonora Gabrielli, mia concittadina: lei e il personale infermieristico-sanitario mi hanno sostenuto, non posso citare gli infermieri e gli operatori del reparto per non fare un torto a nessuno. Ti venivano vicino, non ti facevano vedere la paura di essere contagiati e avevano tutte le precauzioni: le maschere, le visiere, i caschi e tutti i dispositivi immaginabili».

La sofferenza della vicina di letto

La prof.ssa Latini ha vissuto sia la sua malattia, che quella di chi la circondava. «Dopo diverso tempo – racconta – vicino al mio letto è venuta una signora di Pesaro, intubata, la quale aveva il sondino nel naso. Ha sofferto moltissimo: di notte ha avuto degli attacchi di tosse e non respirava, diceva che voleva morire e che non ce la faceva più. Il mio cuore batteva sempre di più per la paura, perché vedevo che era monitorata ed era in una situazione molto difficile. La signora, di nome Anna, alla fine ce l’ha fatta come me».

La grande forza di volontà della prof.ssa Latini

La docente, tuttavia, non ha mai mollato. «Ci sono stati anche momenti emozionanti e commoventi in periodo di Pasqua, come ho già scritto nella lettera, che ci hanno fatto strappare molte lacrime, perché in quel momento difficile non sapevi che fine avresti fatto. Io mi dicevo: “Io non posso morire, anche per i miei nipoti, perché hanno perso l’altra nonna alla vigilia di Natale. Noi ce la dobbiamo fare, perché sarebbe un trauma, un disastro”. Avevo e ho tuttora tanti progetti, ce la dovevo fare. Mi hanno fatto fare anche una camminata nel corridoio, mi hanno anche ripreso, ma io rispondevo: “Io devo fare tante cose”. Il personale mi incoraggiava a mangiare. Sono dimostrazioni di affetto che ti facevano stare bene».

La situazione , fortunatamente, si è evoluta per il verso giusto. «Quando mi hanno tolto l’ossigeno – commenta emozionata la professoressa – ho pianto di gioia e di liberazione, anche se speravo di non tornare indietro al punto di prima. Questo perché quando mangiavo e avevo problemi di respirazione, dovevo fermare la maschera per la ventilazione, togliermela e mangiare, controllando la saturazione dell’ossigeno. Nell’ex reparto di chirurgia, ho trovato Federico Sebastianelli, infermiere cingolano a cui ho insegnato alle scuole medie, e altri dottori in gamba. Non tutti si presentavano con il loro nome».

Il cartello posto all’ingresso di casa Stramazzotti-Latini a Cingoli

Il trasferimento a Fermo e la guarigione

Verso la fine di aprile, è arrivato un nuovo trasferimento, visto il miglioramento delle sue condizioni. «Il 28 – spiega la docente in pensione – mi hanno trasferito all’Inrca di Fermo. Ero isolata completamente, con la porta chiusa, anche se c’erano persone che mi aiutavano, tra lo psicologo, il fisioterapista e i medici. Il primo tampone che ho fatto in quella struttura era indeterminato, ovvero né positivo né negativo. Me ne hanno fatti altri due consecutivi la settimana scorsa, precisamente martedì 12 maggio e giovedì 14, ed entrambi erano negativi. Venerdì 15 ho avuto il risultato, mi hanno fatto la radiografia che ha confermato la scomparsa del virus». 

Così sabato 16 maggio la professoressa Teresa Latini finalmente uscita ed è  ritornata a casa dai suoi cari.

Ora l’attende un lungo percorso di riabilitazione. «Ho aderito – spiega – a un progetto di ricerca dell’Inrca di Fermo per vedere l’evoluzione della malattia sui pazienti che hanno più di 60 anni. Sto abbastanza bene e ora devo recuperare le forze. Sono stata fortunata, c’era gente che ha sofferto molto di più di me. Non credo di uscire prossimamente a spasso per Cingoli, mi voglio tenere al riparo da rischi. I cingolani sono stati tutti formidabili, con dimostrazioni di affetto e di stima che commuovono. Evidentemente qualcosa avrò seminato nella mia vita».

L’ospedale “Carlo Urbani” di Jesi, dove è stato ricoverato Paolo Stramazzotti

Anche il marito Paolo vuole lasciare una battuta. «Commossi ringraziamenti – scrive Stramazzotti – e immensa riconoscenza per tutti gli operatori dell’ospedale “Carlo Urbani” di Jesi, dove sono stato ricoverato e curato con premura e professionalità. Tutto il personale medico e paramedico ha lavorato, in condizioni difficili, quasi surreali, impensabili fino a questo momento di pandemia, senza mai dimenticare l’aspetto umano della situazione. Un cordiale saluto a tutti».

Giacomo Grasselli
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