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Cronaca

JESI “CARMEN”, APPLAUSI MA UNA RECITA CHE HA BISOGNO DI RODAGGIO

Non convince la messa in scena, replica domani alle 16 al Teatro Pergolesi in chiusura della 52esima Stagione Lirica di Tradizione

JESI, 21 dicembre 2019 – Uscendo dal Pergolesi, ieri sera, dopo la prima di “Carmen” con l’accento sulla “e” perché è francese, mentre nell’orecchio sinistro (sono mancino, ci sento meglio) risuonavano gli applausi del pubblico tributati all’opera di Bizet, nell’orecchio destro stava prendendo forma uno strano motivo, che adesso non ricordo, vediamo se gliela faccio alla fine del pezzo che, all’alba, sto scrivendo.

Avevo assistito all’ennesima “Carmen” della mia esistenza, eppure qualcosa non mi quadrava.

Alla musica non puoi dire nulla, alle voci magari qualcosa sì, ma quello che mi ha colpito, e non so ancora in che senso, è stata la sensazione di aver visto qualcosa che utilizzava la musica di Bizet ma metteva in scena una interpretazione dell’opera che aveva poco a che spartire con l’anima universale e l’amore per la libertà di Carmen, la sua fierezza, la sua voglia di vivere come le pareva.

In sostanza, stimo molto chi riesce a rileggere un capolavoro mondiale e dare la sua chiave di lettura in mano al fruitore perché apra la sua mente e si immedesimi in quello che la regia vuole comunicare.

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Solo che stavolta non c’entrano gli stereotipi (sole, passione, sfrontatezza sensuale) da saltare e mettere in un cantuccio («In Spagna, solo in Spagna si doveva ambientare», sentivo dire durante l’intervallo da alcune persone che abbandonavano momentaneamente il loro posto scandalizzati, e questo termine non è il mio), perché è un’affermazione valida solo in parte.

È che, per come è stata messa in scena, l’idea del regista Paul Émile Fourny non ha colto nel segno, non conferendo al lavoro valore aggiunto (l’ambientazione) all’opera che ciascuno di noi si aspettava.

Scriveva il regista nelle sue note: «Siamo partiti dall’idea di una messa in scena simile alle recenti serie televisive poliziesche, e in particolare a quelle che si svolgono negli anni ’50-‘60, perché “Carmen” è la storia di un crimine! L’azione scenica inizia dunque con la scoperta di due corpi, davanti a un teatro in cui una compagnia sta allestendo l’opera di Bizet, uno dei quali è dell’attrice che interpreta Carmen. Quindi rivivremo l’azione in flashback e scopriremo che don José, ispettore di polizia, è l’autore dell’omicidio».

Il teatro di cui parlava il regista è il “Moriconi”, ancora in restauro, forse l’omaggio a Jesi può far piacere. Ma per il resto i flashback di cui si parlava un secondo fa se ne vanno in mezzo alle linee gialle di “scena del crimine” (attraversata allegramente da un gruppo di scolari cantanti mi pare eccessivo), a una marea di personaggi che affollano la scena, spesso danneggiandosi fra loro e scontrandosi. Risse fortunatamente evitate…

In sostanza, se si voleva dare all’opera un “ésprit” da noir, quindi sul “gotico”, focalizzare un femminicidio perché di questo oggi i giornali parlano sempre (purtroppo…) fra le strade o le quinte di un vecchio teatro, non si è raggiunta la meta prefissata. Stop. E di questo, seppur nuovo e intrigante sulla carta, non si può non tener conto.

Certo, i cantanti… che gli puoi dire? Abbiamo (almeno io) scoperto una straordinaria mezzosoprano, Mireille Lebel, che riempie la scena, che recita il suo essere donna come un’attrice esperta, che mette i colori della sua voce a disposizione delle sensazioni e dell’emotività che scaturiscono. È un animale da teatro, la sua emissione è morbida e naturale, agile, sembra aver cantato da sempre il suo ruolo, con una presenza scenica che segue con attenzione i momenti vissuti, sempre vivissima.

Bene anche la Michaela di Anna Bordignon, un’altra giovane voce, già esperta, che ha dato al suo ruolo una passione e una tenerezza che colpiscono per la (presunta) facilità con cui raggiunge i risultati voluti.

Enrico Casari, don José, si è confrontato con se stesso più che con Carmen, dando al suo personaggio quel pathos necessario che ne conclamasse l’impotenza di fronte a un’amata che vuole la sua libertà di amare.

Escamillo (Sergio Foresti) si è perso, non vocalmente però, in mezzo all’insieme che gli ruotava intorno in modo incontrollato. Non ha dato il massimo, così è parso, ma la sua figura resta un punto di riferimento.

Una cosa che non ho capito. Sono stati aggiunti alcuni brani recitati. Bene, ma allora perché “A una passante”, scritta nientepopodimeno che da Baudelaire (rivedere “Les fleurs du mal”) è stata recitata (bene da Francesco Mattioni) in italiano???

Tutto l’insieme, in sostanza, musicalmente ha funzionato dal punto di vista vocale, sostenuto da un discreto coro. E da una direzione, quella di Beatrice Venezi, moderna sicuramente, che sviscera i vari momenti psicologici degli interpreti, ecco, questa da Carmen mediterranea, spagnola, se volete, con una scherma straripante.

Così alla fine piovono applausi all’opera e al cast, alle scene che stavolta non hanno fatto passare un raggio di sole (!), ai profiler che si aggiravano sulla scena del crimine.

Me ne vado e mi viene in mente la canzone dei Beatles che faceva, in francese: “Michelle, ma belle, sont les mots qui vont trés bien ensemble”, come dicevo all’inizio, che mi ronzava nell’orecchio. E canticchio, per i vicoli uggiosi di Jesi qualcosa, tipo “Mireille Lebel”, sull’aria di “Michelle”.

L’opera “Carmen” mi ha stregato ancora una volta. Si replica domani, domenica 22, alle ore 16.

Giovanni Filosa

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