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Cronaca

JESI Giornata della Memoria al Classico: fare resistenza è nostro dovere

Una fiamma che va tenuta viva ogni giorno, perché il clima di odio di oggi non degeneri come 80 anni fa nei campi di sterminio nazifascisti

JESI, 27 gennaio 2020 – Juden hier. Qui vivono Ebrei. Germania 1938? No, Piemonte 2020.

Di questi tempi, una sopravvissuta agli orrori di Auschwitz-Birkenau è costretta a girare sotto scorta per le minacce ricevute dai razzisti, neofascisti, antisemiti odierni che poco hanno imparato dalla storia. Non innocui e insani casi isolati, come a qualcuno piace far credere, ma espressioni di un clima sempre più intollerante verso l’altro in genere.

Tutto questo, e molto altro, vuol dire che no, una sola Giornata della Memoria non basta, e che la Shoah si ripete ogni giorno sotto i nostri occhi più o meno indifferenti a causa di un antisemitismo crescente e di tutte le discriminazioni di ogni tipo che vengono perpetrate.

Una piccola grande forma di resistenza all’odio, quella del Liceo Classico Vittorio Emanuele II. Ieri due intensissime ore di memoria per ricordare di ravvivarla sempre, ogni giorno, in ogni azione, parola e pensiero che concepiamo.

Quattro le storie presentate da una ventina di studentesse e studenti guidati dalle docenti Laura Trozzi e Alessandra Marcuccini. Quattro persone del ghetto di Varsavia che a loro modo hanno contribuito a lasciare a noi, 80 anni dopo, ricordi più che vivi della disumanità di cui l’uomo – il sapiens, quello che si arroga il diritto di sentirsi superiore a ogni manifestazione naturale – è stato capace. Bisogna proprio distogliere vigliaccamente gli occhi per far finta di niente.

Perché proprio Varsavia? Perché quando Hitler invade la Polonia ci vivono 350 mila ebrei. Le persone stipate nel ghetto saranno 500 mila.

«C’è urgenza di capire come si vive di là dal muro – così ha introdotto l’evento la professoressa Trozzi – per capire quanto sia importante abbatterlo. Nell’orrore, ognuno ha un margine di libertà per fare un gesto, anche piccolo, di resistenza».

In 70 Paesi del mondo, oggi, ci sono muri che si elevano per ragioni diverse ma sempre con la medesima intenzione: quella di dividere.

«Togliamoci i sandali – ha detto la professoressa Marcuccini -, quello in cui entriamo è suolo sacro».

Il 16 novembre 1940 il ghetto di Varsavia viene chiuso, recludendo all’interno mezzo milione di persone abbandonate a se stesse.

Ma lì dentro, nel gennaio 1943, si apre una delle poche, fallimentari – ma non per questo meno dignitose – rivolte degli ebrei che decisero di far sentire la propria voce e di morire a testa alta.

In occasione del compleanno di Hitler, in aprile, si decide di dare una svolta alla ribellione: soppressa a suon di dinamite e lanciafiamme, il ghetto viene raso al suolo. Ma ci vogliono settimane per vincere ebrei per lo più disarmati.

Gli ebrei sono sporchi per natura, spiega il cinema di propaganda. Bisogna proteggersi, proteggere i propri figli e il proprio Paese.

Eccoci quindi alle quattro storie.

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La mia lunga vita è trascorsa senza che io cercassi premi o riconoscimenti. Ho cercato di vivere da essere umano, il che non è sempre facile. Ogni bambino ebreo che ho contribuito a salvare è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, non un motivo di vanto. Irena Sendler

Wladislaw Szpilman, il pianista ebreo sopravvissuto grazie alla musica e all’umanità di un ufficiale tedesco. «Wilm Hosenfeld – diceva – fu l’unico essere Umano con in dosso un’uniforme tedesca che io abbia mai conosciuto». Umanità. È la parola chiave da cui la Memoria non può prescindere.

Emanuel Ringelblum, lo storico ebreo che si oppose all’orrore con carta e penna per “gridare al mondo la verità del ghetto”.

Chi racconterà la nostra storia? Si chiedevano in effetti le vittime. Forse i tedeschi, che la miseria l’hanno causata e non vissuta? Gli stessi che scattavano le fotografie di cui oggi noi disponiamo e che nascono, quindi, per essere ancor più umilianti?

L’archivio nato dalla sua raccolta di materiali – pagine di diario, fotografie, disegni, oggetti di vario genere – insieme ai membri dell’associazione Oyneg Shabbath con Rachel Auerbach, è oggi Patrimonio dell’Umanità. Tre i depositi di documenti, solo due già individuati e disseppelliti.

Janusz Korczak, medico e pedagogista che educò e rimase fino alla fine con i suoi bambini ebrei della “Casa dell’Orfano”. Condusse 107 bambini verso il loro terribile destino con dignità, insegnando loro ad accettare ogni aspetto della vita, compresa la morte. Vestiti a festa e mano nella mano in fila per quattro, nel 1942 salirono a testa alta sul treno diretto a Treblinka.

Nessuno si oppose alla loro marcia funebre. Tacere, in questi casi, significa acconsentire all’orrore. Allora, come oggi.

Infine, Irena Sendler, l’infermiera che salvò la vita a circa 2.500 bambini ebrei. Una lista ben più lunga di quella del noto Schindler.

Aveva addestrato i cani ad abbaiare per coprire il pianto dei bambini consegnati alle sue cure dalle famiglie per assicurare loro quanto meno una sopravvivenza. Sono stati 2.000 i bambini rintracciati in seguito, ormai cresciuti, ma ben pochi riuscirono a ricongiungersi alla famiglia originaria.

«Grazie le ha scritto uno di loro anni dopo perché nel linguaggio umano non è possibile dire niente di più».

Oggi il fascismo e il nazismo ai più sembrano follie. Ma a loro tempo, parevano avere perfettamente senso. Sembravano la risposta giusta alle problematiche contemporanee.

Hitler – lungi dal mitizzarlo in un senso o nell’altro – non era un pazzo, così come non lo sono i suprematisti bianchi o quelli che marchiano le porte delle persone oggi, qui in Italia, o quelli, ancora, che riempiono invano la propria vuota esistenza di violenze di qualunque sorta contro il diverso di turno.

Hitler, e con lui Mussolini, aveva certamente una morale molto più discutibile della media, ma ha concretizzato tendenze già più o meno visibilmente esistenti. Odii che serpeggiavano da anni, da secoli in verità, appoggiati da moltissime persone comuni.

Nahmiel Ahronee, ministro del culto della comunità ebraica di Ancona, è intervenuto dopo lo spettacolo del Liceo, fatto di video, foto, testimonianze, parole.

«Nessuno saprà mai come si è arrivati a tanto, ma ogni catastrofe è sempre iniziata con bugie che accendono l’odio. La storia si ripete sempre in modi diversi ma identici, e noi oggi non abbiamo la certezza che quell’orrore non possa riaccadere. La memoria è uno dei modi per far sì che niente del genere si ripeta».

Non solo ebrei nei lager nazifascisti, ma anche anarchici, senzatetto, malati mentali, omosessuali, prostitute, Rom e Sinti, criminali comuni, oppositori politici, immigrati. Insomma l’umanità di serie b. O no?

Lì in mezzo, tra centinaia di migliaia di vittime, ci saranno state persone di ogni genere, brave persone, cattive persone. Ma pur sempre persone. Esseri viventi, senzienti e pensanti con una dignità.

L’umanità ne è uscita devastata. Ma non ancora abbastanza saggia, a quanto pare.

Oggi, persone che fuggono da guerre, fame, governi insostenibili, discriminazioni, sono viste come un problema per i Paesi in cui approdano disperati, e fanno pensare che la fame, alla fine, non sia nemmeno il problema più grave, di fronte a certi livelli di disumanità.

Ci sono slogan “politici” odierni che ravvivano quell’orrore che ci piace pensare lontano, estraneo a noi, e ne uccidono e umiliano ancora e ancora le vittime. A noi nati dalla parte fortunata del mondo o della storia tutto questo sembra non riguardare, e invece ci riguarda eccome, perché con la consapevolezza e gli strumenti della memoria e della cultura si può e si deve fare resistenza.

È un nostro dovere morale.

Elisa Ortolani

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