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Jesi / Per non dimenticare: la Shoah alla luce del Sinai

Incontro a Palazzo Bisaccioni, restituire la voce alle vittime innocenti per non lasciar cadere nell’oblio tanto dolore e tanta disperazione

di Maria Cristina Zanotti

Jesi, 7 febbraio 2023 – Giovedì scorso, a Palazzo Bisaccioni, una visita guidata alla mostra “William Congdon. In the Death of One. Artista e ambulanziere nell’inferno di BergenBelsen“, ha introdotto l’evento “Per non dimenticare: la Shoah alla luce del Sinai”, che si è tenuto nella Sala Maggiore.

La manifestazione è stata organizzata dall’Associazione culturale Quaderni Storici Esini, presente il presidente Gianni Barchi, e si è giovata del patrocinio della Regione Marche, nella persona del consigliere regionale Lindita Elezi, componente del Comitato ebraico marchigiano, dell’assessorato alla cultura del Comune di Jesi, di Italia Nostra, presente il presidente Costantina Marchegiani, della Fondazione Cassa di Risparmio di Jesi e del Comitato Centro Storico.

Alla visita ha fatto seguito il convegno, moderato da Beatrice Testadiferro, direttore del settimanale diocesano “Voce della Vallesina”, aperto dal presidente della Fondazione Carisj Paolo Morosetti.

Lindita Elezi e Maria Cristina Zanotti

E’ stato quindi introdotto l’intervento del professor Massimo Giuliani, che si è svolto grazie al collegamento zoom con Roma, adeguatamente curato dalla studentessa Beatrice Fava. Il professor Massimo Giuliani è docente di Pensiero ebraico all’Università di Trento, di Religione e cultura Ebraica a Urbino, di Filosofia ebraica presso il Diploma universitario di Studi ebraici dell’Ucei a Roma, membro dei comitati scientifici della “Fondazione Maimonide” di Milano e collabora a numerose riviste e programmi scientifici.

Dal 2008 al 2012 ha fatto parte del Comitato Scientifico del Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara, ha pubblicato numerosi libri, tra cui il volume intitolato “Le terze tavole: la Shoah alla luce del Sinai”, con il quale cerca di analizzare e riassumere le principali interpretazioni che studiosi ebrei, di diversa formazione ed estrazione, hanno dato della immane tragedia verificatasi durante il ventesimo secolo, nel tentativo di rielaborare l’inesauribile lutto che ne è derivato.

Scrive Giuseppe Mario Pizzuti: «Abbiamo cominciato a dividere quella storia tra prima e dopo Auschwitz; in quell’angolo di terra polacca, divenuto terribilmente celebre, si è verificata una rivelazione decisiva: l’uomo moderno, occidentale, ha conosciuto, ha visto in faccia l’insondabile abisso del demoniaco di cui egli stesso si è scoperto portatore; ha dovuto prendere atto che tutti i pensieri sull’uomo e su Dio, elaborati in due millenni di cristianesimo, erano stati irrimediabilmente bruciati insieme con gli Ebrei, nei forni crematori di quel campo di morte». (“L’eredità teologica del pensiero occidentale: Auschwitz”, Rubettino, 1997”).

Citando un passo del libro Se questo è un uomodi Primo Levi, alla richiesta di spiegazione di un internato cui viene proibito di bere da una stalattite di ghiaccio, giunge dalle Ss questa risposta: «Perché? non c’è un perché». La crudeltà è, dunque, fine a se stessa, ingiustificabile, immotivata, senonché legittimata dalla stessa “soluzione finale” cui la follia nazista ha già destinato il popolo ebreo, insieme con tutti coloro che vengono considerati “diversi”, Rom, omosessuali, disabili, dissidenti, e via elencando in una sequela di orrori.

E se «comprendere è impossibile, conoscere è necessario», aggiunge Levi, perché ciò aiuti a formare le coscienze e non si abbiano a ripetere simili atrocità. La Shoah fu, certamente, sterminio, o meglio omicidio di anime innocenti, ma allo stesso tempo ha goduto a lungo di una sorta di immunità perché protetta dal silenzio e dalla menzogna come null’altro mai. Qualche anno fa venne a Jesi, invitata da un Istituto Superiore, la scrittrice Lia Levi, ed ebbi la possibilità di parlarle.

La signora Levi aveva subito le conseguenze delle leggi razziali, aveva dovuto nascondersi e si era salvata grazie all’intervento del Collegio Romano delle Suore di San Giuseppe di Chambery, mentre molti suoi parenti, fra cui una zia, erano stati deportati ed erano morti. Le domandai, quindi, per quale motivo essi non fossero fuggiti o espatriati, onde evitare la malasorte. Mi rispose candidamente che nessuno, all’epoca, era a conoscenza dei campi di sterminio e dei forni crematori; sarebbe parsa una cosa talmente improbabile, da esulare da ogni possibile immaginazione.

Tanto che una sua zia era stata deportata con il miraggio di un lavoro da sarta, che avrebbe dovuto svolgere per le forze armate tedesche; la signora aveva accettato con una certa serenità, salvo poi scrivere in una lettera alla famiglia, una volta raggiunto il campo di concentramento cui era stata destinata: «Penso di essere stata vittima di qualche errore delle autorità: si sono sbagliati, invece di sistemarmi in un campo di lavoro, mi hanno messo in una baracca abitata da pazze, forse fuggite da qualche manicomio».

Questo fu l’effetto che dovettero farle, di primo acchito, le sue compagne di sventura, già da tempo internate; la zia di Lia Levi morì poco dopo. Il campo di concentramento di Teresienstadt, a sessanta chilometri da Praga, fu quello più utilizzato dai nazisti per gettare fumo negli occhi dei visitatori, e confondere le tracce delle stragi commesse. Tra il 24 novembre del 1941 e il 9 maggio del ’45, vi furono concentrati i maggiori artisti, il fior fiore degli intellettuali ebrei mitteleuropei, pittori, scrittori, musicisti e una gran quantità di bambini.

Presentato dalla propaganda nazista come un esemplare insediamento ebraico, fu in realtà luogo di raccolta e smistamento dei prigionieri ebrei verso i campi di sterminio di Treblinka e Auschwitz. Gestapo e Ss realizzarono il cosiddetto “spettacolo di abbellimento”, dotando la piccola cittadina di campi da tennis e da calcio, cercando di mostrare un lato giocoso e gradevole di quello che, a tutti gli effetti, era un lager controllato dai soliti crudeli gendarmi, e riuscendo per ben tre volte ad ingannare la Croce Rossa Danese, che la visitò anche il 23 giugno del 1944, senza trovar nulla da ridire su questo “modello nazista” di insediamento ebraico.

In realtà, vi giunsero in tre anni più di 155.000 ebrei, dei quali circa un quarto morì di stenti già a Terezin, mentre 88.000 furono deportati verso i campi di sterminio orientali. Ne sopravvissero in tutto 3.600. Dalla fine di settembre 1944 le Ss abbandonarono ogni finzione propagandistica, per procedere il più velocemente possibile alla liquidazione del campo, con l’invio dei rimanenti prigionieri ad Auschwitz.

Pertanto, la vera vittoria della Shoah risiederebbe proprio nel silenzio. Ad esso dobbiamo reagire, restituendo voce alle vittime innocenti di quella malvagità senza limiti, ai bambini privati del loro futuro, agli uomini defraudati di ogni dignità, alle donne ridotte a cadaveri ambulanti.

Dobbiamo parlarne, sia pure nel rispetto di coloro che sono stati privati di ogni diritto e del bene supremo, la vita, di cui nessun essere umano ha il diritto di disporre, nel rispetto dei sopravvissuti e delle problematiche complesse che li hanno afflitti dopo i lunghi anni di prigionia, le torture e le sofferenze subite; ma dobbiamo parlarne. Per non dimenticare, per non lasciar cadere nell’oblio tanto dolore e tanta disperazione.

©riproduzione riservata

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