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L’ARTICOLO Il Covid, la crisi in Afghanistan e il ruolo dell’Italia

Invece di onorare il nostro ruolo di vassallo americano, non sarebbe stato meglio presidiare il Mediterraneo con particolare attenzione alla nostra succursale energetica in Libia (Tripolitania) oggi presidiata dai turchi?

Le vicende del ritiro statunitense e dei suoi alleati dall’Afghanistan hanno fatto passare in secondo piano le problematiche del Covid-19. Hanno fatto il giro del mondo le immagini del caos all’aeroporto di Kabul e soprattutto quelle agghiaccianti degli afghani aggrappati ai carrelli del poderoso aereo americano C17 in decollo, per poi precipitare nel vuoto.

Unanimi sono stati i commenti critici nei confronti della supponenza del presidente Biden e unanime l’impressione che si sia trattato di una riedizione delle immagini già viste a Saigon nel 1975. Già perché, come allora, anche queste sono la conseguenza di una rovinosa sconfitta militare aggravata dall’incompetenza dell’intelligence nel prevedere il rapido collasso dell’esercito regolare afghano che avrebbe dovuto contrastare l’avanzata dei Talebani.

Eppure anche in questa vicenda il Covid-19 c’entra, perché la crisi debitoria americana, già iniziata nel 2008, si è aggravata con la pandemia. Il sostenere le emergenze sanitarie ed economiche, ha reso critica la capacità di finanziare l’avventura afghana, soprattutto dopo l’emergere della priorità assegnata al contenimento della Cina. L’Afghanistan è un Paese apparentemente “marginale”, costituito di steppe, montagne e colture di oppiacei, abitato da pastori prevalentemente organizzati in gruppi tribali, spesso in lotta fra loro, che tuttavia in caso di invasione straniera, fanno fronte per combattere il nemico comune.

Tuttavia se nel corso della storia diversi imperi si sono interessati a questo paese, qualche valenza strategica deve pur averla. A metà ‘800 inizia l’impero britannico che, preoccupato della possibile invasione da parte della Russia della sua importante colonia indiana, decide di invadere l’Afghanistan sua naturale porta di ingresso. Il conflitto, distribuito in tre fasi, si perpetua fino a ridosso della prima guerra mondiale e si conclude con la desistenza della Gran Bretagna.

Nel 1979 sarà l’Unione Sovietica ad essere coinvolta nell’invasione del Paese, su disperata richiesta di un neo-governo afghano che, essendo di estrazione socialista, aveva avviato una serie di riforme in senso laico scatenando la rivolta degli islamisti. Questi ricevevano il supporto finanziario e militare da parte degli Usa e altri Paesi ostili all’Urss, come il Pakistan, quindi nel clima della “guerra fredda“ di allora, il Politburo, a malincuore, decise di avviare l’invasione. Dopo dieci anni, mestamente, l’Armata Rossa prendeva la via di casa con una ritirata sicuramente ordinata ma che fu il prologo dell’implosione di un impero.

Il supporto americano ai fondamentalisti islamici ebbe tuttavia un inatteso effetto boomerang perché in seguito, nella veste di Al Qaeda, questi presero di mira proprio i loro ex sostenitori, con il sanguinoso quanto spettacolare attentato l’11 settembre del 2001. Lo sgomento di una popolazione abituata a vedere in tv i bombardamenti in casa d’altri, ha determinato la decisione del presidente Bush Junior di invadere l’Afghanistan e successivamente l’Iraq.

Sebbene l’operazione di distruggere l’infrastruttura di Al Qaeda si sia conclusa rapidamente, le truppe Usa e Regno Unito restarono per anni, nel frattempo ingrossate dal contributo della Nato e di altri alleati. L’impegno dell’Italia, concentrato soprattutto intorno ad Herat, è stato oneroso, focalizzato soprattutto su opere civili e sanitarie, di cui l’Ong fondata da Gino Strada, Emergency, rappresenta l’emblema.

La motivazione ufficiale americana per giustificare la permanenza è stata quella di esportare in Afghanistan princìpi e valori della civiltà occidentale soprattutto in termini di diritti delle donne e di istituzioni democratiche. Alla luce delle menzogne sulle supposte e mai trovate armi di distruzione di massa con cui l’America giustificò l’invasione dell’Iraq nel 2003, viene da sospettare che ci siano state altre ragioni.

Non ultima gli interessi dell’industria bellica americana che grazie alle guerre, oltre a registrare utili spaventosi, ha potuto sperimentare sul campo le innovazioni tecnologiche sviluppate. L’invasione protratta per vent’anni e la sua conclusione ingloriosa sollecita nell’opinione pubblica americana, e non solo, una risposta alla questione se ne valesse davvero la pena. I dati che circolano in questi giorni parlano di oltre 6.000 militari americani deceduti e di costi intorno ai 2.000 miliardi di dollari. Questi soldi, oltre ad alimentare la macchina bellica, sono serviti a foraggiare le oligarchie locali, le quali, in prossimità del ritiro occidentale, si sono involate con il malloppo verso Dubai, lasciando le truppe regolari afghane allo sbando.

Le guerre afghane hanno anche l’etichetta di detonatori per il collasso di imperi. Succederà anche questa volta? Potrebbe. Specialmente se la sfiducia verso l’America coinvolgesse il dollaro, ovvero lo strumento che gli permette di vivere parecchio al di sopra dei propri mezzi. A partire dalla seconda guerra mondiale ad oggi gli Usa sono passati dalla posizione di maggior creditore del pianeta a quella di maggior debitore, una condizione che la storia monetaria ci indica come inconciliabile con il privilegio di emettere la maggior valuta di riserva globale.

Presto o tardi, come accadde alla sterlina, il dollaro dovrà cedere il posto ad un’altra divisa forse come lo yuan, o l’euro, o moneta digitale, o anche l’oro.

Diamo un’occhiata ora ai numeri di casa nostra relativi ai venti anni di impegno in Afghanistan. I dati ufficiali ci parlano di oltre cinquanta morti e 8.7 miliardi di euro spesi, di cui 840 milioni destinati all’esercito regolare afghano. Non proprio bruscolini, per cui ci si chiede: invece di queste scampagnate cruente in Afghanistan e anche Iraq per onorare il proprio ruolo di vassallo, non sarebbe stato meglio presidiare il Mediterraneo con particolare attenzione alla nostra succursale energetica in Libia (Tripolitania) oggi presidiata dai turchi?

E ancora, alla luce dei disinvolti quanto imprudenti comportamenti provocatori verso la Russia, di Polonia, Lituania e Romania, che rischiano di coinvolgerci in una sconvolgente guerra nucleare, non sarebbe meglio, come già hanno fatto Svezia e Finlandia, trasformare il rapporto con la Nato da soci a collaboratori esterni?

Comunque, ritornando all’Afghanistan, i problemi non si concluderanno con la fine dell’evacuazione dei militari e dei civili che hanno collaborato con gli occidentali. I vincitori dichiarati, i Talebani, avranno enormi problemi a stabilizzare il Paese nel clima post-guerra, con conseguenze che tuttavia si riverbereranno all’esterno, coinvolgendo non solo gli Stati confinanti ma anche tutto l’Occidente. Un collasso dello stato afghano determinerebbe un’accelerazione dei flussi migratori di una popolazione in piena esplosione demografica nonché la creazione di un terreno fertile per l’insediamento di cellule terroristiche.

Come già intuito dal nostro presidente Mario Draghi, sarebbe il momento che i grandi protagonisti della geopolitica globale lavorino insieme con lungimiranza per il bene di tutti.

Bruno Bonci

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