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L’ARTICOLO Per noi la morte è una spaventosa sorpresa

«Ci sfugge nel momento stesso in cui ci rapisce» e proprio adesso non riusciamo a guardarla in faccia, a elaborare il lutto, a versare lacrime

JESI, 3 maggio 2020 – Sono partita bene. Ho chiamato a raccolta tutte le mie risorse interiori per affrontare il lockdown.

Di più. Ho considerato questo tempo un kairòs, un’opportunità per frenare i ritmi, fermarmi, fare silenzio, dedicarmi alla lettura più assiduamente, rispolverare quei piccoli hobbies che la quotidianità ante Covid non mi aveva permesso di coltivare: ho ripreso in mano la chitarra, coltivato piantine, cucito tovaglie. Ho ritessuto gli spazi e le relazioni quotidiane e familiari con fili di piccole cose e grandi attenzioni.

Sì, sono partita bene anche perché le mura solide della casa hanno fatto il loro lavoro e protetto bene dall’insidia del virus. Non ha attaccato le mie vie respiratorie. Se pur era intorno a me, stazionava però almeno fuori dal portone di casa, strenuo baluardo protettore. Ma la virulenza è comunque riuscita a penetrare e si è infiltrata subdola nelle vie interiori arrivando fin negli anfratti dell’anima, complici la sciorinatura quotidiana dei numeri delle vittime e le immagini di cadaveri nelle camionette.

«Ormai, nessuno ha più cura della propria morte, nessuno la coltiva più, essa quindi ci sfugge nel momento stesso in cui ci rapisce… per noi la morte è una spaventosa sorpresa». (Emil Cioran)

Già, la morte. Il tabù rimosso dei nostri tempi votati all’eterna giovinezza, anzi al mito dell’immortalità a qualunque costo. Nessuno più ci ha detto che la morte c’è. Nessuno osa più pronunciare il suo nome, nessuno più ce la rende per quella che è. Anche lei rimandata a data da destinarsi, mistificata, virtualizzata o demandata a specialisti del settore per paura di toccarla. Due mesi di blocco totale e tutto sembra stia per ripartire. L’economia, il lavoro, gli spostamenti, tutto ovviamente e giustamente con le dovute misure precauzionali. Il “fare presto” spinge e rincorre come un cane in corsa che cerca di arrivare all’osso del “come prima”.

Ma intanto la morte ha mietuto con grandi falciate e sembra che non ci sia tempo, adesso meno che mai, di guardarla in faccia, di fare lutto, di versare lacrime.

Proprio adesso, dopo due mesi di uragano e tempesta, sembra non sia più possibile fermarsi e parlare di lei, raccontarla, elaborarla. Nessuno ha pensato al bisogno di prenderci, collettivamente, almeno un minuto, in silenzio, per poter piangere i morti. Tutti i balconi hanno cantato, si sono colorati di arcobaleni, contagiandoci a vicenda di “tutto andrà bene”, i social si sono intasati di messaggi di positività, ottimisti, combattivi, fiduciosi. E tutto questo è stato importante e di grande aiuto.

Ma ci serve anche un tempo, seppur breve, per non fuggire dalla morte, dal dolore, dalle lacrime, per patire-con chi è rimasto orfano, vedovo e… quale parola descrive il vuoto che lascia la scomparsa di un figlio?

Versare lacrime non per l’entità del numero dei morti, ma perché ogni vita che si è spenta, pur nel suo limite di fragilità, malattia o vecchiaia è stata bellezza, esperienza, memoria e gesti.

Ed ora anche i corpi sembrano evaporati. Non ci è stato possibile nemmeno la cura di quei corpi, ricomporli, accarezzarli, accompagnarli per l’ultimo viaggio. E allora, rincalzati dal “fare presto”, abbiamo bisogno di avere quel momento, che sia solo anche un minuto, tutti e insieme, per ricordare, ri-portare nel cuore i morti, farne memoria «nel senso di vita partecipata e vissuta… ricostruzione individuale e collettiva dei nomi, degli avvenimenti, delle filastrocche, delle canzoni…» (Edmondo Berselli)

Le esperienze negative non si rimuovono, si elaborano (da ex-labòro, tirare fuori a fatica). Elaborare la morte, tirarla fuori a fatica, soprattutto quella dei nostri cari, non per trattenerli, se non nel ricordo, ma per lasciarli andare, perché quando si ama qualcuno lo si lascia libero e, come scrive Massimo Recalcati, la vittoria sulla morte non avviene semplicemente allontanandola dalla vita ma «accade nell’incontro con l’alterità assoluta della morte» e perché l’assunzione della morte non annulla la possibilità dell’amore.

Anzi, solo l’amore può salvare dalla morte e dalla distruzione. E allora, poiché non ci è dato in questo momento, possiamo però, in altro modo e come ultimo gesto di amore, con trepido cuore a fior di mani, accompagnarli alla sepoltura. Siamo noi ad averne bisogno.

Ho pensato ad una tomba
che non ho mai veduta
e mi è sembrato
di deporvi in quell’istante,
con trepido cuore a fior di mani,
un vivo fascio
di garofani rossi.
(Antonia Pozzi)

Cristiana Filipponi

(foto Francesco Pirani)

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