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L’ARTICOLO Siamo tutti mascherine: a rischio la nostra visione di identità

Qual è quella vera? Quella dove nascondiamo il viso o quella dove trasmettiamo – col pianto, col sorriso, digrignando i denti, schiudendo le labbra – le nostre emozioni?

CASTELPLANIO, 21 giugno 2020«L’uomo crede di volere la libertà. In realtà ne ha una grande paura. Perché? Perché la libertà lo obbliga a prendere delle decisioni, e le decisioni comportano rischi». (Erich Fromm)

La pandemia ha scosso il nostro legame sociale, generando paura e angoscia. Ma dalla condizione di rischio e vulnerabilità in cui ci troviamo può nascere una società più forte, libera e capace di cooperare.

«Abbiamo visto troppa gente morire, siamo sopravvissuti ma a quale prezzo? Devo però dire che da questa esperienza ho imparato una lezione: distinguere quello che è essenziale da quello che non lo è. Le priorità cambiano molto in un simile frangente». (dott. Sergio Harari)

Liberi o controllati?

Perché salvaguardare la nostra libertà: libertà di vivere, di agire, di decidere, di stabilire di vivere o morire…? Quale libertà, come esercitarla? La libertà «è una sfida complessa e quotidiana, che non riguarda mai solo l’individuo, ma ogni relazione che prende forma negli ordini sociali, culturali e politici». (M. Magatti)

Soprattutto oggi, davanti a una pandemia che rischia di turbare il senso di fiducia, relazione e legame su cui poggiano il nostro agire e il senso di responsabilità. In modo diffuso e capillare, capiamo ora davvero cosa significhi vivere nella società del rischio

 

In passato non avevamo compreso a pieno quanto le riflessioni sul rischio di diversi pensatori fossero importanti. Qualcuno aveva affermato che la società avanzata genera rischi e, con la sua crescita, li moltiplica. Indipendentemente dall’origine del Covid-19, se sia dovuto a crisi ambientali o altro, indubbiamente la velocità, l’accelerazione e il modo in cui ha impattato hanno a che fare con una dimensione integrale di rischio.

Quando sentivamo parlare di quanto accadeva in Cina abbiamo subito pensato si trattasse di una cosa lontana, che non ci avrebbe mai riguardati o coinvolti. Ma questa impreparazione non è stata solo collettiva, è stata anche individuale. Tutti abbiamo fatto l’esperienza della vulnerabilità della vita. Il Covid-19 ha toccato il legame sociale da molti punti di vista.

Il contagio ha a che fare con il contatto, società ad alto contatto fisico come le nostre sono tra le più esposte alla velocità di diffusione del contagio stesso. E che dire della nostra stessa visione di identità, caratterizzata dal volto e dalle sue espressioni?

«Siamo tutti mascherine – affermava il filosofo Giulio Giorello, scomparso da poco -. Ne facciamo uso, ce le portiamo appresso, le personalizziamo. Le usiamo come barriera contro il male oscuro e invisibile del coronavirus. E come protezione verso gli altri. Le indossiamo quando pensiamo di essere in pericolo, le togliamo quando ci rilassiamo. C’è un uso pubblico: quando siamo in mezzo agli altri. E un altro privato: quando siamo in famiglia o in ambiti ristretti. Le mascherine sono diventate parte di noi, sono un pezzo della nostra identità. Ma, appunto, quale identità? Con le mascherine siamo noi, ma lo siamo anche senza. Qual è dunque l’identità vera: quella dove nascondiamo il viso o quella dove trasmettiamo – col pianto, col sorriso, digrignando i denti, schiudendo le labbra – le nostre emozioni, il nostro linguaggio non verbale?»

«Se la questione della mascherina viene presa in modo ossessivo, effettivamente può nascere un problema di identità. La nostra persona una volta era particolarmente caratterizzata dal volto e dalle sue espressioni. E la mascherina invece queste espressioni le cela. Dunque parliamo di una perdita. Se questa perdita viene mantenuta nell’ambito del ragionevole, non è un disastro. Ma se invece diventa una difficoltà, una perturbazione, se il mascheramento diventa una sorta di ossessione allora è chiaro che la mascherina produce un colpo alla nostra identità personale… La difficoltà principale è che accanto alla fisionomia cui siamo abituati, alla riconoscibilità reciproca che determina, all’immagine di noi che lo specchio di casa ci rimanda, si affianca un altro noi, un noi mascherato che offriamo al mondo che ci circonda e che modifica negli altri la percezione di come siamo. Un cambiamento inimmaginabile anche solo fino a pochi mesi fa. E se questo cambiamento finisce per essere vissuto in modo drammatico, può provocare una sorta di scissione interiore. Mi sembra un punto molto delicato».

Ci troviamo a un bivio, soprattutto ora che molto è mediato dalla tecnologia. Tutto può andare in una direzione ma anche in un’altra. L’uomo del XX e del XXI secolo si divide secondo Max Weber in due “tipi”: lo specialista senza spirito, una sorta di automa-burocrate assuefatto ad uno sguardo sulla realtà meramente analitico e il gaudente senza cuore, ovvero colui che, nella fretta imposta dal sistema, dimentica l’altro e, conseguentemente, perde la capacità di provare emozioni, diventa apatico.

La Chiesa ha un ruolo?

In un contesto di materialismo radicale, nonostante l’impatto con la nostra fragilità umana, la morte viene allontanata, la trascendenza esclusa (non presa neppure in considerazione), la vita fabbricata. Che cosa abbiamo appreso dalla visione diretta o indiretta delle bare allineate in attesa di cremazione? La vita e la morte, elementi cardine del cristianesimo, sono stati toccati in maniera rivoluzionaria. Ma di fronte a una secolarizzazione così potente la Chiesa sembra inerme.

Nel mondo che abitiamo il vero dio è la tecnica, soltanto in essa risiede la salvezza, nel suo sterile autoalimentarsi. L’ideologia è diventata tecnologia e alla sovranità dello Stato si è sostituita quella edonistica dell’Io, che annulla la finalità per inseguire spasmodicamente la ricerca di nuove opportunità; tutto viene relativizzato per assolutizzare la tecnica. Tutto ruota in funzione dell’efficienza in un processo che esprime un prodotto e rottama gli scarti… In questo contesto la religione, non solo quella cristiana, è messa all’angolo, giudicata nel migliore dei casi un impaccio vetusto e anacronistico (cf. Giaccardi e Magatti, La scommessa cattolica).

Joseph Ratzinger (ora Benedetto XVI Papa emerito) nel 1969 aveva profetizzato: «Gli uomini che vivranno in un mondo totalmente programmato vivranno una solitudine indicibile. Se avranno perduto completamente il senso di Dio, sentiranno tutto l’orrore della loro povertà. Ed essi scopriranno allora la piccola comunità dei credenti come qualcosa di totalmente nuovo: lo scopriranno come una speranza per se stessi, la risposta che avevano sempre cercato in segreto… A me sembra certo che si stanno preparando per la Chiesa tempi molto difficili. La sua vera crisi è appena incominciata. Si deve fare i conti con grandi sommovimenti… Sono certissimo di ciò che rimarrà alla fine: non la Chiesa del culto politico… ma la Chiesa della fede. Certo essa non sarà più la forza sociale dominante nella misura in cui lo era fino a poco tempo fa. Ma la Chiesa conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte».

Chiediamo alla Chiesa, incarnata nella società odierna, di farsi ponte tra il presente della prova e il futuro potenziale di umanità ancora inespresso, con quella energia interiore che l’ha resa capace di attraversare i secoli.

Anna Maria Vissani, grafologa e counselor

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