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LAVORO La cultura della sicurezza ha ancora molta strada da fare

Le leggi non bastano se chi le deve applicare non se ne cura alla lettera

Scorre la voce di Mario Draghi che in Parlamento elenca I nomi degli ultimi caduti sul lavoro, col tono che giustamente si riserva ai caduti in guerra.

Perché oggi la morte sul luogo di lavoro ha ancora cifre da conflitto bellico!

Anche in Italia, dove c’è ancora chi si illude che siamo un Paese civile.

La sicurezza sul lavoro è tema che ancora molti, troppi prendono alla leggera, anche se il più delle volte non con intenti malevoli, con coscienza e cognizione di quel che possa accadere.

È di pochi giorni fa l’analisi trimestrale sull’andamento degli infortuni sul lavoro nelle Marche (ne parliamo qui): al netto delle variazioni dovute all’emergenza Covid nei diversi settori, il trend che si evidenzia è sostanzialmente invariato da decenni. Fatto salvo che fino agli anni ‘70 non si poteva censire correttamente il dato (mancate denunce, lavoro nero all’ordine del giorno, Statuto dei Lavoratori e conseguenti diritti appena promulgati), i numeri non fanno pensare a un miglioramento sostanziale.

Si dà la colpa, per abitudine culturale, al “padrone” (quando oggi, tra microimprese di tre dipendenti, partite Iva individuali e imprese familiari, siamo tutti in una certa misura “il padrone…), alla corsa alla produttività, al degrado della civiltà moderna. Massimi sistemi che poco hanno a che fare con l’attualità e molto più complessi di quanto la frase banale possa riassumere.

La colpa – se di colpa si tratta – è spessissimo anche ripartita tra titolare e lavoratore: messi nel conto i fatti di cronaca dove la vittima è il titolare stesso, vanno aggiunti i casi di pura e semplice, drammatica disattenzione e un comune accordo a trascurare.

Di storie potremmo riportarne mille, ma sintetizzandola con un esempio esterno all’argomento, basti pensare a quante volte non indossiamo le cinture di sicurezza in auto, “tanto devo fare solo 100 metri…”.

Se pensiamo al recente caso della povera Luana, è pressoché evidente che le protezioni della macchina che l’ha risucchiata sarebbero state disattivate. Sulla buona fede dei titolari non ho dubbi, ma chiedete all’amico falegname se sulla sega a nastro non ha tolto lo schermo protettivo della lama. Personalmente non conosco falegname che abbia ancora le protezioni sulla sega a nastro: oggettivamente dà fastidio, a volte il pezzo non passa e per un lavoro di 2 minuti tocca fare complessi aggiustamenti che portano via mezz’ora. “Tanto devo fare solo un taglietto di 5 centimetri…

In compenso non conosco nessun falegname che abbia ancora tutte le dita.

Ai tempi delle proposte di legge sulle cinture di sicurezza fioccavano teorie fantasiose sulla loro inutilità (“tengo stretto il volante”), addirittura sulla loro pericolosità (“ti tagliano in due se vai a sbattere!”, come se un tamponamento scemo ti lasciasse intero senza cintura…).

Il problema è culturale, nell’imprenditore e nel lavoratore: si sottovalutano le conseguenze del non utilizzare correttamente i dispositivi di protezione. “Che vuoi che succeda se tolgo questo? Io ci sto attento” non è un alibi, né per il “padrone”, né per il lavoratore. Le leggi non bastano, se chi le deve applicare non se ne cura alla lettera: un banale caschetto e un paio di scarponi antinfortunio, un’imbragatura agganciata come si deve, salvano più vite di quanto si vuole ipotizzare.

La cultura della sicurezza ha ancora molta strada da fare nelle menti degli italiani tutti: finché non sarà cultura condivisa di lavoratori e imprenditori, le morti sul lavoro saranno sempre troppe.

(mi capitò una volta di dover lavorare con carichi sospesi sopra la testa di 3-400 kg l’uno: “Voglio guanti e caschetto”, dissi col mio solito tono da rompicoglioni al capoturno. “Chissà que te fa ‘l caschetto se casca el carigo!”. Figuriamoci senza caschetto quanto avrebbe giovato…)

(m.m.m.)

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