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RITRATTI Le ali a San Siro: il sogno realizzato da Marco Cerioni

 “Ritratti” è uno spazio nel quale prende forma un’intervista che non ti aspetti, con persone e personaggi che riescono ad attirare interesse

 

JESI, 3 DICEMBRE 2020 – Cercavo qualcuno da intervistare che, seppure per motivi diversi, facesse felici sia gli uomini che le donne. Chi meglio di Marco Cerioni, classe 1970, ex portiere jesino dagli illustri trascorsi sportivi: tra i primi e pochi italiani a giocare la Coppa Libertadores, ha militato nella Jesina, nel Bologna, nel Rimini e nell’Ancona, con cui ha indossato la maglia della Serie A fino al 2014. Il suo “trofeo” più bello? Sicuramente la figlia Beatrice Maria, nata lo scorso settembre, già ammiratissima: l’annuncio della sua nascita ha infatti scatenato sui social un’ondata incredibile di curiosità e affetto.

 

Ma lo sai che l’articolo di QdM Notizie sulla nascita di tua figlia lo hanno letto in decine di migliaia di persone? Una marea impressionante di click, segno che la gente ti segue ancora tantissimo e ti vuole bene.

«Mi fa molto piacere ma devo essere sincero: io vivo nel mio mondo, sono molto riservato di natura, non sono per niente “social”. Questo approccio introspettivo l’ho sempre avuto ma che con l’età si è rafforzato».

Un processo naturale un po’ per tutti.

«Beh, sì. A 20 anni sei sempre “sul palcoscenico”, cerchi masse di consensi. Crescendo capisci che vuoi esibirti per un pubblico sempre più ristretto, una platea di persone che selezioni con cura perché ci vuoi costruire una intimità di valore. Adesso, insomma, mi interessa vivere un tempo “di qualità”, è questo ciò che cerco. La vita, diceva qualcuno più saggio di me, è come una scatola di biscotti: quando diventi adulto inizi a gustarti quelli che ti restano».

Immagino che ora la priorità sarà gustarti tua figlia. Come va la vita da neo papà?

«Totalmente sotto sopra: sono stato catapultato fuori dal mondo in una dimensione a sé stante, di cui lei, Beatrice Maria, è l’epicentro. Uno sconvolgimento incredibile, a guardarsi da fuori non ci si riconosce: non c’è più il giorno, né la notte, ma un unico tempo infinito in cui esiste solo lei. Punto».

Da questa estate sei direttore generale della “Junior Jesina Scuola Calcio Roberto Mancini”. Come procedono le cose?

«Stiamo andando avanti alla ricerca di nuovi stimoli in un periodo oggettivamente difficile come quello che stiamo vivendo. Ai ragazzi (professionisti o dilettanti non importa, nel calcio in questo non ci sono differenze) manca tantissimo poter giocare una partita. Purtroppo adesso non è consentito e, capisci bene, se a pallone togli le partite, viene a mancare la cosa principale».

Ma in pratica adesso cosa è consentito fare?

«Esercizi in campo, ma sempre col giusto distanziamento. Ci dedichiamo più che altro al perfezionamento della tecnica e del gesto atletico. Ma senza spogliatoio e senza gara manca il cuore del calcio, l’anima».

Come vedi il futuro? Intendo nello sport ma anche in generale.

«Voglio pensare che stiamo subendo per tornare più forti di prima, un po’ come se stessimo prendendo la rincorsa prima di ripartire. Sono ottimista, devo esserlo, altrimenti non se ne esce».

I ragazzi come la stanno vivendo?

«Sono troppo piccoli per avere una reale percezione del problema, questioni cruciali come la malattia o la morte per loro sono concetti lontanissimi. A quell’età, così come è stato a suo tempo per noi, ci si sente immortali e i doveri sono duri da fare propri. Però, rispetto al primo momento in cui si è diffusa la pandemia, hanno sicuramente metabolizzato tante questioni, ad esempio ora sono abituati a mantenere le distanze, evitare il contatto è diventato automatico. Ma questo è successo anche a noi adulti».

Che roba triste a pensarci, eh?

«Sì, ma sono sicuro che presto ritorneremo alle vecchie abitudini».

Il contatto di un tempo, l’età spensierata, lo sport: mi racconti il primo ricordo legato al pallone?

«Il parco di Piazza Bramante, vicino casa mia, io che mi tuffo per fermare la palla. Un’immagine che potrei intitolare “volere volare”».

Quanti anni avevi?

«Tre, forse quattro. Ero veramente piccolo».

E già sognavi di fare il portiere.

«Sai, il ruolo del portiere nel calcio lo devi sentire dentro, è molto particolare, ci hanno scritto su poesie, canzoni e un sacco di libri. Fare il portiere è una vera filosofia, abbiamo regole tutte nostre, siamo un piccolo universo a parte rispetto agli altri giocatori. Evidentemente, anche se avevo pochi anni, ero già dentro quel mondo».

Cos’è il calcio per te?

«Anzitutto un gioco. Ho avuto la fortuna di praticare questo sport in un periodo in cui tutti (compagni di squadra, avversari, addetti ai lavori) la pensavano come me: ci univa questo spirito, questo rispetto al senso profondo del gioco che era il motore del nostro lavoro e l’anima di una disciplina così democratica. Già perché in campo, ricchi o poveri, famosi o sconosciuti, eravamo tutti uguali. Dentro quel rettangolo verde contava solo chi sei veramente».

La partita che rammenti con più emozione.

«Ne ricordo tantissime, difficile scegliere. Mi viene in mente, ad esempio, la prima partita contro la Pergolese quando giocavo a Cerreto, il mister era tuo padre (Franco Morici, ndr), ma anche il rigore che ho parato a Higuita, il portiere della nazionale colombiana, in occasione della Champion sudamericana. A pensarci bene, soprattutto rammento le partite dove ho sbagliato: quelle le ricordo tutte!».

Allora sei molto critico con te stesso.

«No, è proprio il marchio del portiere: se pari dieci incredibili palle goal e ne sbagli solo una, ti diranno che sei un somaro perché hai sbagliato quell’unica palla lì. Per forza poi gli errori diventano indelebili».

Ti manca giocare?

«Mi manca l’emozione, mi manca il sogno di San Siro che aveva quel bambino che si tuffava sull’erba di Piazza Bramante, mi manca la sensazione che ho provato quando quel sogno l’ho realizzato davvero. Ma la professione no. Quando ho smesso, l’ho fatto perché ero convinto, era arrivato il momento di farlo. Poi mi sono rimesso in gioco in altre cose, mi piace sperimentare, cambiare, mettermi in discussione e ogni volta che ho girato pagina, al passato non ho più pensato con nostalgia».

Ma con club e locali ci lavori più?

«È una parentesi che considero chiusa. Penso che ogni cosa nella vita abbia un suo tempo, oltre il quale si scade nell’anacronismo. E poi io sul lavoro e nella vita seguo un principio essenziale: cerco di dare sempre il massimo; quando capisco che non è più possibile, preferisco dedicarmi ad altro».

Tuo padre, l’onorevole Gianni Cerioni, esponente di spicco della Democrazia Cristiana a livello locale e nazionale, è stato un personaggio molto ammirato a Jesi: un insegnamento su tutti che ti ha lasciato.

«Di insegnamenti di mio padre ne conservo tanti, difficile citarne uno solo: seppure con tutti i contrasti che ci dividevano, nel bene e nel male io sono il suo proseguo. Quando si è spento in qualche modo è venuto a mancare anche il mondo di alto spessore e cultura che lui portava con sé. Papà aveva una marcia in più, ha raggiunto traguardi importanti perché la politica per lui era una cosa seria che professava con ardore infinito. Non credo che oggi le cose si prendano con questa stessa serietà».

Purtroppo no.

«È proprio questo che cerco di insegnare ai miei ragazzi della scuola calcio: i risultati non arrivano così, per sbaglio. Se si punta alla Serie A, bisogna versare “lacrime e sangue” tutti i giorni e, nonostante la fatica, non è detto si riesca a raggiungerla. La strada di ogni professione che voglia essere affrontata con rispetto è lastricata di impegno e spirito di abnegazione. Poi, ovviamente, ci deve essere la passione: senza quella, tutto diventa insopportabile; se invece c’è, non solo il percorso acquista senso, ma i sacrifici non ti pesano mai veramente».

Non possiamo chiudere l’intervista senza citare Maradona. La sua morte ha scosso tutto il mondo, a dimostrazione di quanto amore riesca a muovere uno gioco apparentemente banale come il calcio: coma mai, secondo te? Perché è così potente questo sport?

«Perché ti dà emozioni talmente forti che riesce a farti immedesimare in chi lo pratica, perché ha la capacità di farti estraniare dalla tua vita, perché in certi casi è addirittura in grado di identificarsi con la felicità. Se poi si tratta di Diego Armando Maradona, stiamo parlando di qualcosa che va ben oltre: lui era il calcio».

L’hai mai visto giocare?

«Sì, ho avuto questa fortuna».

Com’era?

«Di un altro pianeta. L’ho ammirato da spettatore e l’ho affrontato una volta con il Bologna. Ho anche conosciuto tanti calciatori che ci hanno proprio giocato insieme e la cosa più incredibile è che nessuno di loro ne ha mai parlato male. Tutti, ma davvero tutti, concordavano sul fatto che fosse un uomo dal cuore d’oro, generosissimo, campione fuori e dentro il campo. Del resto non si diventa “leggenda” per caso».

 

Gioia Morici

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