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RITRATTI Dal buio alla luce, Graziosi e la scrittura del riscatto

“Ritratti” è un contatto dal quale prende forma un’intervista che non ti aspetti, a tu per tu con volti e personaggi che riescono ad attirare interesse

 

 

JESI, 6 agosto 2020 – Il suo primo libro è stato L’ombra delle onde del 1998, a cui sono seguiti Come adottare una nuvola, Le giunchiglie in riva al fiume (1999), La lieve trama dell’usignolo (2001), La vita è un arco teso (2004). Ma è con Sangue di rosa scarlatta del 2008 che ottiene l’attenzione mediatica più autorevole. Da lì in poi non si ferma più. Gira l’Italia e il mondo come docente di scrittura creativa, presiede concorsi letterari nazionali e sforna pubblicazioni che gli valgono una serie infinita di riconoscimenti. Vittorio Graziosi, jesino classe 1960, grazie ai suoi libri di premi ne ha vinti così tanti che nemmeno lui se li ricorda più.

Dimmi almeno gli ultimi in ordine di tempo.

«Il premio internazionale Montefiore del 2018 e il premio della critica Buonarroti del 2019, entrambi per Sotto il segno della bilancia, testo scritto con Fabio De Nunzio di “Striscia la Notizia”. Ma dovrei citare  anche il Pegasus del 2017: con me sul palco tra i premiati c’era Pupi Avati».

Lo dici con leggerezza, come non fosse importante.

«Ottenere riconoscimenti ovviamente fa piacere ma alla fine non è essenziale. Quello che conta è il messaggio che si veicola con la scrittura. Non ho mai scritto per cercare consenso massificato».

Cosa cerchi allora quando scrivi?

«Cerco di tradurre in emozione le idee che ho in testa. Cerco di dare vita a pensieri che da me coinvolgano il resto dell’umanità. Amo le storie dove la coscienza non si arresta nel punto fermo del primo giudizio, ma, poiché credo che la meriti sempre, riceve dalla vita una seconda possibilità».

I tuoi libri infatti spesso raccontano di grandi riscatti umani.

«Sì. Penso a La vita è un arco teso, dove il protagonista è un assassino che si immola per un ideale oppure a Sangue di rosa scarlatta, che narra della redenzione di un padre dopo la perdita del figlio in un attentato terroristico».

Un racconto che ha visto tante trasposizioni teatrali, ti ha fatto fare un mare di beneficenza e che adesso sta vivendo una seconda giovinezza grazie a una casa editrice scozzese.

«Esattamente. La Black Wolf Edition di Edimburgo, che mi ha invitato a svolgere un workshop di scrittura in Scozia, ha pubblicato la versione inglese del mio libro per lanciarla nel mercato anglofono. È incredibile: in qualche modo questo racconto non mi appartiene più, se ne va da anni in giro per il mondo e continua a portare ovunque il suo messaggio d’amore».

Cosa mi dici de Il crinale del tempo, la tua ultima fatica uscita a febbraio?

«È un testo molto intenso, che attraverso la storia di una violenza sottolinea un proposito fondamentale: illuminare le zona d’ombra che normalmente non hanno voce. Il senso del riscatto qui è proprio questo: passare dal silenzio alla parola, dal buio alla luce. Stiamo presentando il volume nelle Marche e abbiamo in cantiere appuntamenti anche fuori».

Quanto c’è di Jesi, la tua terra, in quello che scrivi?

«Tengo moltissimo alle mie radici, sono il mio equilibrio ma soprattutto mi danno la determinazione ad essere una persona stimabile. La rispettabilità è un valore che ho imparato da mio nonno Dino: lo considero ancora oggi l’uomo migliore che abbia mai conosciuto, ha fatto dell’ideologia una ispirazione di vita».

Lo citi in Prima che mi dimentichi di te, il libro sulla Resistenza in Vallesina che hai recentemente curato per la Regione Marche.

«Sì, Dino il fornaro è uno dei racconti all’interno di questa raccolta di storie vere, del popolo: un tributo all’eroismo dei nostri partigiani ma anche al coraggio della gente comune che ha vissuto sulla propria pelle la seconda guerra mondiale. Dare corpo a trame di minuta quotidianità cavate tra i “fiotti” di allora è stato come accendere un faro sul presente. L’ho fatto per ragionare sul passato e non dimenticarlo mai, in un momento storico come il nostro purtroppo pericolosamente proiettato alla violenza. L’arte serve anche a questo: ricordarci chi siamo, unirci in un unico grande abbraccio, ridarci il senso vero delle cose».

Gioia Morici

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