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RITRATTI Lucia Ubaldi: il mondo attraverso l’obiettivo

“Ritratti” è un contatto dal quale prende forma un’intervista che non ti aspetti, a tu per tu con volti e personaggi che riescono ad attirare interesse

 

JESI, 20 agosto 2020 – Lucia Ubaldi, insieme a suo fratello Luca, gestisce il negozio di famiglia “Ubaldi fotovideo” che a Jesi è una vera istituzione, perché, tra i primi esercizi del genere in città, da decenni immortala gente comune e celebrità in occasioni di ogni tipo. Una passione, quella per la fotografia, ereditata dal padre Ubaldo, artista delle immagini, personaggio conosciutissimo, stimato e amato da tutti.

Quando è nata esattamente la vostra attività?

«Mio padre ha aperto il suo negozio di fotografia in piazza della Repubblica a Jesi il 1° aprile 1968. È mancato due anni fa poco prima del 50° anniversario dell’avvio della sua professione. Avremmo voluto festeggiare in grande, avevamo in mente tante cose, ma poi, purtroppo, è saltato tutto».

Tuo padre è stato una vera icona per la città, quando è mancato vi sarà arrivata una ondata di affetto incredibile. C’è qualche suo racconto che ti ricordi in particolare?

«Raccontava spesso che quando è venuto da Ostra a Jesi con l’intenzione di aprire il suo negozio, il padre, ovvero mio nonno, gli diceva che era matto. Allora questa professione era poco praticata, ma babbo è stato molto determinato e finché non ha realizzato il suo sogno non ha mollato. Aveva individuato il negozio che gli piaceva in piazza, nel cuore della città, e ha insistito con la vecchia proprietaria per molto tempo finché alla fine lei gliel’ha venduto. Ha avuto una grande tenacia».

Com’è cambiato il modo di fare fotografia nel tempo? Penso soprattutto all’avvento del digitale e al fatto che oggi si stampa pochissimo.

«È cambiato radicalmente, direi rivoluzionato. Da un lato sicuramente in positivo: è tutto molto più semplice, più rapido, si possono fare tantissimi scatti senza, appunto, dover stampare le foto. Lavorare alle istantanee, creare progetti, modificarli, migliorarli è decisamente meno complicato. Però oggi la tecnologia ci porta a scattare continuamente e ad immortalare qualunque cosa: la foto, che prima fissava un momento speciale, da incorniciare, ha perso la sua “anima”, la sua profondità. Adesso la gente fa decine di foto e poi neanche le guarda più, le accumula in modo compulsivo senza dare valore allo scatto».

Diciamo che la foto ha perso la “poesia” che aveva un tempo.

«Esatto. È iniziato tutto con l’avvento del digitale, poi l’uso smodato dei telefonini ha peggiorato le cose. Una volta, quando c’erano i rullini e bisognava portarli dal fotografo per svilupparli, c’era l’emozione di attendere per poi scoprire come erano venute le immagini. C’era veramente qualcosa di magico che avvolgeva il mondo della fotografia. Adesso si fotografa qualsiasi cosa, dai lacci delle scarpe, se sono carini, al bicchiere sul tavolo prima di fare l’aperitivo. E quasi sempre tutti gli scatti finiscono in archivi telematici che vengono presto dimenticati».

A proposito di archivi, con le migliaia di fotografie fatte in 50 anni, possiamo dire che avete in mano un autentico patrimonio storico.

«Sì, davvero impossibile quantificare gli scatti che abbiamo in archivio. Ci piacerebbe riuscire a digitalizzare tutto per non perdere questo mastodontico, straordinario ritratto che abbiamo della città di Jesi, ma si tratta di un lavoro immane perché bisogna spillare uno ad uno tutti i negativi in nostro possesso. Prima o poi lo faremo».

Il primo servizio importante che hai fatto te lo ricordi?

«Beh, mi viene in mente quando molti anni fa sono andata al Palazzetto dello Sport a immortalare Claudio Baglioni che era venuto a Jesi per un concerto. Ero emozionatissima, armata della mia Reflex e di tanto entusiasmo. Ricordo che poi abbiamo esposto tutto in vetrina».

Qualche personaggio famoso che ti è rimasto impresso?

«Una volta in negozio è entrato Riccardo Cocciante, ma mamma era talmente presa dal suo lavoro che neanche lo ha riconosciuto!»

Del resto il lavoro, quando le foto ancora si stampavano e gli album si costruivano artigianalmente, sarà stato enorme.

«Sì, era davvero un impegno gigantesco. Soprattutto dietro agli album dei matrimoni c’era una fatica certosina. Rammento che mio padre ci lavorava per giorni e giorni, spesso anche di notte».

 Mi racconti un episodio divertente che vi è capitato durante una cerimonia?

«Una volta, durante una comunione a Montecarotto, un fotografo amatoriale che scattava senza alcun incarico ufficiale, nel momento del Padre Nostro, quando i bambini erano in circolo raccolti nella preghiera, ha separato le mani per entrare nel cerchio a fare le foto. C’è stato grande imbarazzo e noi temevamo che lo scambiassero per un nostro collaboratore».

Com’è finita?

«Si è beccato una strigliata dal prete sull’altare che ancora se la ricorda!»

Gioia Morici

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