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RITRATTI Ugo Coltorti: la vittoria sta nel piacere di scendere in campo

“Ritratti” è uno spazio nel quale prende forma un’intervista che non ti aspetti, con persone e personaggi che riescono ad attirare interesse

 

JESI, 29 ottobre 2020 – “Ciao Ugo, mi piacerebbe dedicarti il prossimo numero della mia rubrica, avevo in mente di fare una chiacchierata sullo sport in generale più che su temi istituzionali particolari, che ne pensi?”. Dieci minuti dopo questo messaggio ero già al telefono con Ugo Coltorti, allenatore di calcio giovanile ed ex calciatore professionista, assessore allo Sport del Comune di Jesi dal 2012. Del resto, se nel Dna hai la parola “Jesi” e “sport” intrecciate insieme, sei tutto fuorché uno che si tira indietro.

 

Da ex calciatore, che differenza c’è tra l’indossare la maglia di una squadra e quella di una intera città?

«Tecnicamente nessuna. Quel senso di trance che si vive nell’agonismo, ovvero l’essere completamente immersi, focalizzati in un obiettivo, tanto da sentire un totale senso di gratificazione per l’attività che si sta svolgendo, è lo stesso che provo nel mio ruolo da amministratore, perché comunque faccio una cosa che mi piace e mi fa star bene. Così come accadeva col calcio, anche da assessore sono a servizio di una squadra: certo i numeri con cui si lavora sono diversi, ma l’approccio è lo stesso».

Ti manca il calcio da professionista?

«Tantissimo».

Ho ascoltato tante interviste ad ex calciatori di serie A e tutti, ma proprio tutti, quando si chiede cosa manchi loro di più, rispondono “lo spogliatoio”. È così anche per te?

«Sicuramente. Lo spogliatoio è la parte più bella dello sport, tant’è che a distanza di anni, quando ti incontri tra amici che hanno giocato insieme, più di ogni altra cosa ti racconti quello che ti è capitato fuori dal campo. Lo spogliatoio è il luogo dove ti spogli veramente di tutto, lì c’è la parte umana più vera, dove costruisci emozioni, legami e ricordi che non si cancellano più. Difficile da spiegare se non l’hai provato».

Perché in politica, a differenza che nello sport, non si riesce a fare gioco di squadra?

«Perché subentrano interessi personali e di partito. Fare squadra comunque è difficile anche nel calcio, anche lì ci sono momenti in cui si pensa solo a se stessi. Purtroppo, sia in politica che nello sport, le persone non capiscono che è proprio quando funziona il lavoro d’équipe che arriva il risultato».

Lo sportivo italiano o straniero che ammiri di più e perché.

«Ammiro le persone vere. Il mio idolo da bambino era Gianni Rivera, da adulto poi ho percepito la stessa passione, lo stesso senso di responsabilità e di onestà intellettuale in Roberto Baggio e in tanti altri campioni con la C maiuscola».

Lo sport aiuta a crescere, ad essere competitivi e a rialzarsi dopo una sconfitta. In un momento in cui ai figli è concesso praticamente tutto, quanto è importante educarli allo sport?

«Sono 30 anni che sto nello sport e sento sempre queste frasi, eppure siamo ancora l’unica nazione civile che non ha il professore di educazione motoria alle elementari. Al netto delle parole che si spendono, la realtà dei fatti è che in Italia dal punto di vista dell’educazione allo sport siamo ancora indietro: bisogna creare una cultura in questo senso, che si fa con le strutture, con insegnanti da inserire dentro le strutture e con una sensibilità sociale radicata e diffusa».

Che cosa significa per te la parola “sport”?

«Lo sport per me è quello strumento semplice che ha la chiave per aprire porte importanti che si chiamano cuore, intelligenza, umanità. A livello politico attraverso lo sport puoi arrivare a toccare il sociale, lavorare per potenziare le infrastrutture, puoi scardinare meccanismi che neanche immagineresti. Ma soprattutto lo sport aiuta a diventare persone migliori».

Il distanziamento imposto dalla pandemia ha rivoluzionato il mondo dello sport: sono stati rinviati appuntamenti prestigiosi come le Olimpiadi, gli Europei di calcio, il Giro d’Italia. Ma alla fine tornerà davvero tutto come prima? Come sarà lo sport dopo il covid?

«Quello che stiamo vivendo adesso non è sport. Senza spettatori, senza il calore umano, senza il contatto empatico qualunque sport perde identità. Bisogna aspettare, avere pazienza e, ne sono sicuro, tutto tornerà alla normalità. Non può non tornare come prima».

Tra i personaggi sportivi famosi che hai conosciuto, chi ti ha colpito di più?

«Ho avuto la fortuna, il primo anno in cui ero in giunta, di conoscere Pietro Mennea. Ecco, quando penso a lui mi ricordo di un uomo semplice, diretto, vero. Una bellissima persona. Però mi ricordo anche di un professore sconosciuto al grande pubblico che nella stessa palestra di un quartiere popolare di Roma allena ragazzi disabili e normodotati. Quando l’ho incontrato ne sono rimasto profondamente colpito: un uomo con 7 figli che di giorno lavora duro e la sera fa l’allenatore e, grazie alla sua abnegazione, riesce ad ottenere grandi risultati professionali ma soprattutto umani. Un autentico eroe del quotidiano, qualcuno da prendere ad esempio. Ecco, questi sono proprio i momenti in cui lo sport ti apre il cuore».

Raccontami  un aneddoto divertente che ti è capitato durante la tua carriera calcistica.

«Era il 1988, avevo 22 anni e mi trovavo in Sicilia a giocare la partita di un torneo di rilievo. L’arbitro lo conoscevo, avevo avuto modo di incontrarlo in altre occasioni in cui ero sceso in campo. Dopo 5 minuti di gioco fischia un rigore a nostro sfavore. Non mi sembrava ci fosse, ma resto calmo e proseguo la partita. Riusciamo a pareggiare ma negli ultimi 5 minuti la squadra avversaria segna un altro goal e, ti assicuro, era in fuori gioco nettissimo. Allora mi avvicino all’arbitro per protestare ma non faccio in tempo a parlare che lui mi fa: “Ugo, scusami tanto, ma ho l’aereo tra mezzora e non ho voglia di rimanere qui altri 3 giorni”».

Cioè, pur di tornare a casa, vi ha fatto perdere?

«Che ti devo dire, si vede che la Sicilia proprio non gli piaceva!».

Torniamo nella nostra terra. Ti dico solo un nome: Roberto Mancini.

«Tutte le volte che mi immagino il calcio penso a lui. Ho avuto il privilegio di conoscerlo da piccolo e già da allora si vedeva che aveva una marcia in più. È un uomo innamorato di questo sport, un professionista serio e sono orgoglioso anche solo di dirgli “ciao”. Senza contare che negli ultimi anni ha fatto rinascere negli italiani l’amore per la nazionale di calcio, solo per questo meriterebbe una medaglia».

Che consigli daresti ad un giovane che volesse fare il calciatore?

«Consiglierei quello che dico sempre a mio figlio e che continuo a ripetere ai miei ragazzi dopo 25 anni che faccio l’allenatore: il calcio si può fare in un solo modo…divertendosi. Se non ti diverti, non ti esprimerai mai al meglio. Il calcio non si fa per i soldi, ma perché ti piace. E nella vita quando fai qualcosa che senti dentro, che ti piace veramente, le cose belle poi accadono».

 

Gioia Morici

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