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SOCIAL Il diritto di opinione si ferma di fronte al diritto dell’altro di non essere diffamato

Le regole impongono che ogni cosa che affermate deve avere un riscontro ed essere verificabile, ma nella realtà è proprio così?

Censura? Ma per favore!

Al momento di scrivere questo pezzo non si è ancora spenta l’eco della messa al bando di Donald Trump sui maggiori social, ma sono certo che nel giro dei prossimi 3 giorni sarà tema di esclusivo appannaggio di accademici umanisti, parolai, filosofi (insomma, quella galassia di opinionisti che se esistono o meno nulla cambia).
Censura”, “dittatura”, “volere del popolo”: sono solo tre esempi di parole usate a sproposito e sempre più frequentemente.

Torniamo al punto della cosiddetta censura a Trump.
Premessa: i social, Google, Amazon, la Fiat o il vostro condominio hanno dei “regolamenti interni di servizio” ai quali si devono attenere utenti, dipendenti o semplici ospiti (qualcuno ricorda quei cartelli agli ingressi condominiali con su scritto “Vietato sputare per terra”?…).
Tali regolamenti Facebook e compagnia tweettando li hanno sempre avuti e modificati di tanto in tanto. Non sto qui ad entrare nel merito della loro giustezza, tanto sono certo che nessuno li ha mai letti (me compreso)…

Regolamenti che giusto un paio di anni fa hanno concesso (per dichiarazione degli stessi amministratori) pesanti deroghe ai personaggi politici: si citava espressamente l’esempio di post a contenuti razziali o di incitamento all’odio che, se li fate voi o io, ci becchiamo prima il cartellino giallo, poi quello rosso. Coi politici, in particolare Facebook e Tweeter, hanno avuto maglie più larghe.

Trump è un politico che, come recitava uno spione di una serie televisiva,“tweeta come un quindicenne”, ma a differenza dei quindicenni non veniva mai bloccato.
Lui e altri discutibili suoi simili.

Oggi si restituisce giustizia ed equità col blocco di account o post a bufalari seriali.
Il complottista dirà: “Ma chi lo dice che sono bufale?!?!!!?”.
In realtà quello che nel giornalismo si chiama fact checking con altri nomi non è esclusiva del giornalismo: dalle regole per redigere una tesi di laurea al regolamento di Wikipedia, le linee di principio sono le medesime (ma anche il regolamento di Wikipedia scommetto non ve lo siete andato a leggere prima di gridare “CENSURA!!!!!!!!”).
Noi giornalisti siamo soggetti ad un codice deontologico che, se scrivessimo che Tizio ha dichiarato X, ma lui ha invece detto Y, se diciamo che la Acme è fallita e invece è in amministrazione controllata, finiamo tra le spire della Commissione disciplinare dell’Ordine dei Giornalisti, molto prima di beccarci la querela dalla parte lesa.
Ora, i parametri per definire o meno la nostra colpa sono gli stessi che m’impartì il relatore della mia tesi di laurea, consigliandomi la lettura di “Come si fa una tesi di laurea” del sempre valido Umberto Eco (il fatto che un luminare come Eco abbia dedicato uno dei suoi testi al tema la dice lunga sull’importanza…); gli stessi criteri li ritrovate nella relativa pagina di Wikipedia (e se il testo che avete pubblicato è pieno di evidenziazioni gialle o rosa, vuol dire che non l’avete letta).

In sintesi estrema tali regole impongono che ogni cosa che affermate deve avere un riscontro ed essere verificabile. Le famose 5W che definiscono un articolo come tale non solo danno conto della notizia, come insegnano in tutti i corsi di giornalismo, ma permettono al lettore di verificare le corrispondenze anche su altri media e testi.
Esempi di non-articolo a forte sospetto di bufala erano quelli che riguardavano l’allora ministra Kyenge o la presidente Boldrini: “Case prima agli immigrati!” o “Pranzi da 3.000 euro subito dopo esser andata a visitare la Casa del Povero”, senza uno straccio di indicazione di “dove e quando”.
Ora, nel caso di Laura Boldrini, accusata del luculliano pasto in quel di Ancona, è stato gioco facile smentire perché non esistono ristoranti da quella cifra nel capoluogo dorico, neanche se vi fate portare Moreno Cedroni e Mauro Uliassi cucinati in porchetta.

Il punto è che il diritto di ognuno di esprimere la propria opinione si ferma di fronte al diritto del nostro prossimo di non esser diffamato, calunniato, disonorato (o altra configurazione di reato): quindi se scrivete che Tizio è un cornuto, o avete le foto della moglie che fa acrobazie a colori con un paio di condomini, o vi tocca pagar pegno in tribunale (e anche con la foto della gang bang non è detto che la passiate liscia…).

Qualcuno mi spieghi, quindi, perché se Mario Rossi istiga ad andare ad assaltare il Parlamento armi alla mano viene bloccato (e spero segnalato alle autorità) e se lo istiga Donald Trump no.

Qualcuno mi spieghi perché deontologicamente un giornalista è tenuto a dire la verità, anche quando non gli convenisse, e Mario Rossi (sempre lui!) dovrebbe essere libero di scrivere sui social che io mi strafaccio di zuppe di carote (ortaggio che in realtà detesto!).
Qualcuno mi spieghi perché se io scrivo un’inesattezza in un articolo mi becco la rampogna la mattina presto dal caporedattore, mentre il personaggio citato e un certo numero di suoi amici e Mario Rossi che scrivono corbellerie sui social dovrebbro passarla liscia del tutto (‘sto Mario Rossi prima o poi…).

Facebook, Tweeter e financo Amazon e Apple hanno fatto, non bene, benissimo ad applicare restrizioni a Trump, a Qanon, a mandare in palla Parler: non rispondevano a nessuno dei regolamenti sottoscritti, per non parlare delle discrezionalità che la legislazione Usa riconosce anche ai pubblici servizi.

Volete un’autorità terza che vigili sui contenuti di Fb e soci? Posto che non credo che il risultato sarebbe di molto diverso, ma non fate prima a non usare i social?
Ah, volete una struttura privata che sia controllata da un’autorità di vostro gradimento e controllata dai “vostri” e usarla pure gratis

Vabbè, ma tanto che problema c’è? La misura è colma, la ggiente è stufa e la rivoluzione è imminente.
Imminente da una ventina d’anni, ma imminente.

(m.m.m.)

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