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RITRATTI Federica Quaglieri: dietro la maschera il coraggio delle emozioni

“Ritratti” è uno spazio nel quale prende forma un’intervista che non ti aspetti, con persone e personaggi che riescono ad attirare interesse

 

JESI, 1 ottobre 2020 – “Il palcoscenico è quel luogo dove si gioca a fare sul serio”, diceva Pirandello. Lo sa bene Federica Quaglieri, jesina doc, diplomata alla Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna, che, dopo studi a Praga, Parigi e New York, ha intrapreso la professione di attrice e oggi si muove con disinvoltura tra cinema, tv, cabaret e progetti artistici socialmente impegnati. Quando ci sentiamo è di ritorno da Modena, dove ha appena finito di girare un docu-film su Francesco D’Este.

 

Anna Magnani diceva di aver scelto il mestiere di attrice “per ottenere quella carezza che non aveva mai avuto”, Monica Vitti “per nascere e morire mille volte”. Tu perché hai deciso di fare l’attrice?

«In realtà non l’ho scelto io, è l’arte che ha scelto me. Ho avuto la fortuna di trasferire in un lavoro una passione che per me è necessaria come respirare».

Jesi è stata una pista di lancio stretta o una grande piattaforma da cui attingere?

«È stata un posto da cui fuggire per poter fare questo mestiere, perché oggettivamente non c’erano i presupposti per farlo restando là. Jesi l’ho dimenticata, appena andata via, ma adesso la riconosco come casa e ci tengo che, nelle cose che faccio, abbia l’esclusiva. Ad esempio nella biografia devono categoricamente scrivere che sono marchigiana e non romana».

Ti ricordi la prima volta che sei andata in scena?

«Assolutamente sì! Come dimenticarlo? Era una coproduzione Franco Parenti al Piccolo di Milano e in platea c’era anche mio padre. È stato tutto molto strano, ero agitatissima. Poi col tempo ho imparato a gestire l’emozione e a trasformare la paura in un filo intenso che mi lega al pubblico».

In una professione in cui bisogna essere sempre audaci e disinvolti, come si superano i momenti di imbarazzo e insicurezza?

«Attraverso un grande lavoro su se stessi. Bisogna imparare a tararsi su questo mestiere. Gli attori sono persone che ricevono tantissimi no e quotidianamente affrontano dosi massicce di disapprovazione sociale. Occorre trovare una profonda forza interiore, perché fuori si mostra la parte splendida ma dentro i down sono tanti e se non si riesce a calibrare gli equilibri si rischia di venire schiacciati. La scena, ancor più dell’impegno “pubblico”, impone un grande sforzo privato, “intimo”».

Hai lavorato sul set di Incantesimo, Commesse e Don Matteo: un ricordo che conservi con più soddisfazione?

«Io c’ho comprato casa grazie alla televisione…più soddisfazione di così!».

Da anni ti misuri con il teatro, terreno artistico che dà molto ma, in termini di sacrificio, toglie anche molto. Ti sei mai detta “chi me l’ha fatto fare”?

«Un sacco di volte. Poi però accade una cosa: quando sali sul palco e senti che arrivi alla pancia delle persone, in te suona qualcosa che assomiglia ad una beatitudine ed è un momento così perfetto che daresti altre cento vite pur di tornare a viverlo».

Tanti artisti di talento sono ingiustamente ignorati mentre tanti sconosciuti, grazie a trasmissioni televisive di grande visibilità, diventano dei Vip: non ti fa imbufalire questa cosa?

«Non più. Arrabbiarsi per questo è una perdita di energia. Il mondo va in questa direzione dopo anni di televisione sbagliata e social in cui si pensa solo a stare in vetrina. Ma nel tempo, ne sono certa, la differenza la fa la qualità. Quindi chi ha talento non ha di che preoccuparsi».

Oggi vanno per la maggiore internet e le serie tv: cosa diresti alla gente per farla alzare dal divano e invogliarla ad andare a teatro?

«C’è una grande pigrizia di fondo, è vero. Ma è altrettanto vero che la gente andrebbe educata alla cultura. Ci sono tantissime persone interessate all’arte che non la vivono solo perché non sanno come muoversi. La responsabilità sta in mano alle istituzioni, che dovrebbero cambiare la gestione del sistema formativo. Ad esempio in certe realtà dell’Emilia a scuola si studia recitazione: una prassi che andrebbe estesa perché lo studio dei classici forma il cuore e il cervello dei ragazzi. Allargando lo spettro della conoscenza, i giovani andrebbero a teatro volentieri».

Nelle piccole realtà provinciali così come nei grandi circuiti nazionali, la cultura non sta passando un bel momento: consigli per rinvigorire il sistema artistico?

«La flessibilità. Dobbiamo smetterla di lamentarci. È dal 9 marzo che sento solo piagnistei. Mi rendo conto che il nostro settore è stato tra i più penalizzati in questo momento storico, ma dobbiamo accettare il fatto che niente tornerà più come prima e darci da fare per trovare soluzioni alternative. Basta lagnarsi, iniziamo ad agire. I primi a dover muovere le coscienze sono gli artisti».

A proposito di artisti, ti dico solo un nome: Valeria Moriconi.

«Immensa. Aveva in sé sia corde recitative comiche che drammatiche oltre a un carisma scenico impressionante. Abbiamo dato i natali ad una delle più grandi attrici del secolo eppure, e lo dico con profondo rammarico, sembriamo esserne indifferenti. A 10 anni dalla sua morte, Jesi sembra si stia dimenticando di Valeria Moriconi: la sua scuola, ad esempio, non ha avuto alcun proseguo ed è un vero peccato. La sua memoria andrebbe tenuta viva col massimo orgoglio: tempo fa avevo proposto di esporre i suoi abiti di scena creando un evento su di lei che includesse alcuni monologhi al femminile. Mi sono battuta ma purtroppo non se ne è fatto niente. Una cosa che mi riempie di tristezza».

Raccontami invece un progetto che ti riempie di gioia.

«A fine novembre a Palazzo Ferrajoli a Roma sarò premiata come migliore attrice teatrale all’interno del Premio Donna d’Autore, evento nazionale a cura di Anna Silvia Angelini, che omaggia le donne che nel corso dell’anno si sono distinte per le loro capacità artistiche e professionali. Un riconoscimento a cui tengo molto e sono felice di dirlo qui in anteprima».

Un attore famoso che hai conosciuto, uno con cui vorresti lavorare e un personaggio che vorresti interpretare.

«L’attore famoso: Edward Norton, un figo pazzesco. L’attore con cui vorrei lavorare: Toni Servillo, ci metterei la firma. Un personaggio che vorrei interpretare ce l’ho già: dovrebbe andare in porto per il cinema il ruolo per una eroina partigiana, modello esemplare di donna, moglie e madre. Anche se il mio sogno sarebbe impersonare Blanche di Un tram che si chiama desiderio, in onore di Mariangela Melato che lo interpretò magistralmente a teatro».

L’hai conosciuta, vero? So che sei particolarmente legata a lei.

«Sì, l’ho conosciuta a Jesi quando ero una pischella. Col mio zainetto riuscii a raggiungerla dietro le quinte del Pergolesi, mi presentai, le dissi che volevo fare l’attrice e le chiesi, anche se mi ero intrufolata senza permesso, se potessi assistere alla sua prova generale. Lei, carinamente, acconsentì. Alla fine della serata la aspettai e lei non solo continuò a chiacchierare con me, ma mi ascoltò con la pazienza di una mamma, rispose alle mie domande e mi diede consigli preziosissimi per fare questo mestiere, che naturalmente seguii alla lettera. A distanza di anni, quando la mia professione era per fortuna avviata con successo, la aspettai al Teatro Argentina a Roma, all’ingresso degli artisti, dopo una sua performance. Le raccontai tutto della mia carriera e della mia vita, lei mi abbracciò e nei giorni successivi mi regalò un biglietto in poltronissima per assistere al suo spettacolo, accompagnato da una lettera meravigliosa dove mi diceva di “non smettere mai di avere fame di conoscenza”».

È questa “fame” che occorre per fare bene l’attore?

«Sì. Occorre la fame ma anche il coraggio. Non si deve avere paura delle emozioni».

Che cos’è per te l’emozione?

«È l’energia che fluisce dalle proprie vene e arriva come una luce nella pancia degli altri. È l’abbraccio, è il sentire, è un’onda invisibile che ci lega tutti in un’unica cosa».

Chi è davvero Federica?

«Un sacco di persone insieme. A volte anche molto contrastanti tra loro. Ho fatto fatica a incastrarle, a volte ho cercato persino di soffocarne qualcuna. Ma poi ho capito che sono tutte me. Inclusa quella bambina di Jesi preoccupata che gli altri la capissero e le volessero bene».

 

Gioia Morici

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