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RITRATTI Armando Ginesi e l’indispensabile inutilità dell’arte

armando ginesi

“Ritratti” è uno spazio nel quale prende forma un’intervista che non ti aspetti, con persone e personaggi che riescono ad attirare interesse

 

JESI, 12 NOVEMBRE 2020 – Professore emerito di Storia dell’Arte già Ordinario presso l’Accademia di Belle Arti di Macerata, Console Onorario a vita della Federazione Russa, autore di oltre 300 pubblicazioni (tradotte in 15 lingue), Armando Ginesi è unanimemente riconosciuto come uno dei grandi protagonisti della nostra realtà culturale. Giornalista, critico d’arte, curatore di eventi, diplomatico, nella sua vita ha ottenuto riconoscimenti ambiziosi e stabilito una prestigiosa rete di legami internazionali. Pensate lo abbia avvicinato a cuor sereno? Macché. Ero così in soggezione che continuavo a rimandare. Poi una mattina scopro su facebook che da sessant’anni porta al collo una medaglia su cui è inciso l’aforisma di Einstein “la mente è come un paracadute: funziona solo se è aperta”. Allora mi sono buttata, certa che sulle mie leggerezze avrebbe planato con clemente indulgenza.

 

Professore, dopo aver acquisito competenze in estetica, antropologia, filosofia, teologia, storia, psicologia, sociologia, dopo aver visitato musei e progettato mostre in mezzo mondo, dopo aver pubblicato centinaia di libri, compendi e cataloghi, cosa direbbe ad un bambino per invogliarlo all’amore e allo studio dell’arte?

«Ad un bambino direi che deve guardare tante immagini di quella forma di creatività dello spirito umano che chiamiamo arte, dalla preistoria ai nostri giorni e di cercare di interpretarle, evitando di ricercare in esse significati ragionevoli, per abbandonarsi completamente all’immaginazione, a ciò che esse gli suggeriscono liberamente. Lo inviterei, insomma, e penetrare, piano piano, nel mondo magico che l’arte manifesta».

È molto attivo sui social, sembrerebbe che le moderne tecnologie non la spaventino affatto. È così? Che rapporto ha con le nuove forme della comunicazione?

«Le moderne tecnologie un po’ mi spaventano, ma le uso, ovviamente, perché il mondo in cui vivo me le impone, anche con prepotenza. Infatti a me, che sono uomo di penna e di carta, poi passato alla dattilografia, l’uso del PC mi è stato imposto dagli editori. Se vuoi pubblicare lo devi saper usare, saper spedire attraverso di esso quanto hai scritto, saperlo adoperare per fare ricerca: utilissimo, da questo punto di vista, per la velocità che ti consente di trovare quel che cerchi, salvo, però, fare poi le verifiche opportune sui libri».

Oscar Wilde diceva: “Rivelare l’arte e celare l’artista è il fine dell’arte. Il critico è chi sa tradurre in una materia nuova la propria impressione delle cose belle”. È d’accordo?

«Sì, sono sostanzialmente d’accordo. Del resto questo genio di Wilde concluse la prefazione al suo “Ritratto di Dorian Gray” scrivendo una verità indiscutibile: “Tutte le arti sono inutili” (dal punto di vista della produzione materiale, ovvio). Verissimo, esso sono prodotto dello spirito, non servono a fare qualche cosa, a trarre qualche vantaggio concreto eppure, mi permetto di aggiungere, “sono indispensabili” se vogliamo essere soggetti umani e non animali».

Perché il ruolo del critico è necessario?

«Per aiutare a cogliere il senso più profondo dell’arte che, come dicevo, è emanazione dello spirito. Egli lo può fare perché ha studiato la sua storia, le modalità infinite del suo farsi, la sua natura misteriosa e quindi può prendere per mano il fruitore ed accompagnarlo nella marcia di avvicinamento al portato veritativo che in essa si cela».

La forza espressiva dell’arte non basta a se stessa?

«A volte sì, ma spesso no. Come un libro non può essere letto da chi non sa leggere. Il quale ha bisogno di qualcuno che glielo racconti e, magari, nel contempo, gli insegni come fare per gradualmente riuscire a decodificarlo da solo».

Talento, passione, determinazione, curiosità: cosa si è rivelato più decisivo nel suo percorso?

«Talento? Non lo so, lo devono dire gli altri. Passione e determinazione? Sicuramente. Curiosità? Infinita».

L’importanza dell’arte oggi ha subito un calo evidente. La società è attratta esclusivamente da ciò che ha un riscontro pratico e visto che l’arte parla all’anima viene considerata non necessaria. Come invertire questa tendenza?

«Aspettando che le cose riprendano il proprio corso secondo l’intuizione di quel poeta prestato alla filosofia che fu Giovan Battista Vico con i corsi e i ricorsi. Adesso stiamo scendendo verso il basso. Arriveremo a toccare il fondo. Poi risaliremo. A meno che, per via di un eccessivo entusiasmo verso il mito tecnologico, non distruggeremo tutto procurando la fine dei tempi».

La storia dell’arte ci insegna a comprendere la storia del mondo (Umberto Eco) ma anche la nostra storia personale: concorda?

«Quello che dice Eco è vero, come è vero il contrario. È naturale anche che, conoscendo la storia del mondo, noi si finisca per conoscere anche quella personale. Il muto dialogo che quanti hanno la sensibilità per farlo, nella fase interpretativa, instaurano con l’opera d’arte, induce ad approfondire la conoscenza di se stessi. Nel mio ultimo libro “La concezione dell’arte di Armando Ginesi” ne parlo comparando la funzione dell’arte con quella che, nella civiltà greca, svolgeva l’Oracolo. Magari quello di Apollo a Delfi».

Il suo è un curriculum a dir poco straordinario: tra le tante esperienze vissute quale ricorda con maggiore emozione ed orgoglio?

«Non saprei dire. Ne ho vissute tante e di tanti tipi! Diciamo tutte quelle che mi hanno fatto sentire subito che, mentre le vivevo, ricevevo da esse grandi lezioni di vita».

L’artista e l’opera d’arte che ama di più.

«E come faccio a dirlo? Certo se mi imponessero, vigliaccamente, di poterne salvare una e una sola, forse sceglierei una delle tre versioni dell’“Isola dei morti” del simbolista svizzero-tedesco Arnoldo Bocklin».

Un giovane che oggi volesse fare l’artista quante possibilità ha di realizzare il suo sogno?

«Realizzare il sogno di fare l’artista di professione è stato difficile sempre ed oggi non lo è più di ieri. Volontà e sacrificio sono le qualità indispensabili per raggiungere l’obbiettivo. Dopo il talento, ovviamente».

Le Marche: tre opere e tre città che secondo lei assolutamente vanno viste.

«Tre opere? “La crocifissione” di Lorenzo Lotto a Monte San Giusto; “La flagellazione di Cristo” di Piero della Francesco ad Urbino; l’interno scultoreo di Arnaldo Pomodoro nella chiesetta di Pietrarubbia Alta. Relativamente alle città: Ascoli Piceno, Urbino, Fermo».

A più riprese ha criticato le classi dirigenti jesine per una gestione, a suo dire, provincialistica delle questioni culturali: se potesse incidere sulla nostra realtà, cambierebbe l’atteggiamento degli addetti ai lavori o piuttosto dei cittadini comuni?

«Prima quello dei cittadini comuni, poi dei dirigenti, i quali non sono  altro che la proiezione della popolazione che li sceglie, provincialistica, com’è sempre quella di un paese che si crede città».

Ha anche lei l’impressione che attorno a noi ci sia un progressivo e diffuso dilagare della bruttezza? Non parlo solo di degrado estetico ma anche etico. Penso, ad esempio, all’abbrutimento generale del linguaggio, allo scadimento di certi valori che un tempo erano fondamentali.

«Attorno a noi – peggio, dentro di noi – esiste un degrado globale terribile. Il linguaggio svilito, l’incapacità di ideare le città, la perdita del senso morale, la corruzione, la scomparsa di valori tradizionali non sostituiti da altri nuovi, il lavoro inteso non come realizzazione di sé ma come condanna biblica, l’ignoranza sempre più diffusa coniugata con l’arroganza e la presunzione, l’avversione – quando non l’odio – verso il merito fino all’esaltazione del demerito, il disprezzo per l’ambiente e il disinteresse (quando non l’inimicizia) verso l’altro, sono alcuni degli elementi caratterizzanti quella “bruttezza” disumana a cui si allude».

Che cos’è la bellezza?

«La bellezza è la qualità che appaga l’animo servendosi dei sensi e diventando oggetto del contemplare. Ogni periodo storico ha avuto i propri modelli di bellezza. Ecco perché, per conoscere l’arte, occorre conoscerne la storia, quella “storia speciale”, come la chiamava Giulio Carlo Argan, che dobbiamo sempre considerare come prodotto del proprio tempo nel quale si cela un nucleo di verità metastorica».

Speriamo abbia ragione Dostoevskij e che dietro ai nostri tempi, a dispetto di tutto, resti abbastanza bellezza da salvare il mondo.

 

Gioia Morici

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