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Cronaca

JESI Covid-19, Alfio Fiorani: «Ho vissuto giorni difficili e c’erano pure le zanzare»

Ricoverato per 33 giorni al “Carlo Urbani” è tornato a casa ieri: «Personale sanitario davvero bravo e di grande umanità»

JESI, 17 aprile 2020«Sto meglio, non sono guarito del tutto perchè tuttora positivo ma sono a casa, isolato e senza sintomi».

Alfio Fiorani, classe 1952, dopo 33 giorni all’ospedale “Carlo Urbani” da ieri sera è a casa in isolamento nella sua mansarda.

Nessun contatto con la famiglia se non tramite telefono e video computer.

Alfio Fiorani

Per il cibo la moglie, dopo averlo preparato, lo appoggia davanti la porta e dopo essersene andata Alfio lo ritira e lo consuma.

«Sono stato in ospedale 33 giorni – spiega -. Tutto è iniziato il 7 marzo quando ho accusato un po’ di stanchezza anomala e febbre. Il mio medico curante mi aveva prescritto Tachipirina e antibiotico per cinque giorni. La febbre si abbassava per poche ore per effetto della Tachipirina e poi risaliva. Allora su imposizione di mia moglie, davvero le donne, come si dice, hanno un sesto senso, ho chiamato il 118. Trasferito in ospedale sono stato sottoposto a radiografia che ha dato esito positivo. Poi il tampone a confermare tutto».

«Il 14 marzo – continua – sono stato ricoverato nel reparto dove prima c’era Ortopedia, oggi Covid-2, e dopo pochi giorni trasferito al quintopiano dove c’era Cardiologia. Qui mi hanno messo la mascherina dell’ossigeno e qui ho anche incontrato due compagni di viaggio come Cesare e Paolo anche loro successivamente dimessi».

Com’è stata la tua vita in reparto?

«L’infezione non rientrava e dal punto di vista medico sentivo solo dirmi: sei stabile. Cercavo di capire interrogando i medici che mi rispondevano: se sei stabile stai tranquillo, l’importate è che il quadro clinico non peggiori».

Poi finalmente il miglioramento.

«Dopo diversi giorni infatti mi hanno di nuovo trasferito nel reparto Covid-4 e dopo aver fatto anche la prova con il saturimetro, andata bene,  camminando lungo il corridoio, ieri mi hanno comunicato il ritorno a casa. Sono tuttavia ancora positivo ma il dottore mi ha detto: vai a casa ma devi stare in isolamento».

Alfio, la prossima settimana, dovrà fare un nuovo tampone e poi, se sarà negativo, come spera, di lì a poco tempo un altro tampone per la riprova e, finalmente, potrà riprendere la vita normalmente assieme alla famiglia.

«Famiglia che mi è mancata tanto – confida – perché stare un mese in ospedale in isolamento è davvero dura. Neanche il tempo di vedere qualcuno dei tuoi cari magari per ricevere un cambio. Infatti sono stati i volontari della Croce Verde o della Protezione Civile a fare da staffetta tra l’ospedale e casa mia per trasferire le cose di prima necessità e di igiene personale».

Hai mai attraversato una fase critica?

«Fortunatamente mai! Non ho mai accusato sintomi particolari, tosse, mal di testa, altro. Solo febbre».

Ti sei chiesto come e dove potresti essere stato infettato?

«Non ne sono certo ma ci ho pensato. Quattro giorni prima della febbre sono andato a casa di una signora a fare dei lavori alla lavatrice. Mi sono trattenuto poco perché non era guasta, la signora, ricordo bene, aveva utilizzato solo troppo detersivo. In seguito sono venuto a conoscenza che anche quella signora, comunque di età avanzata, era stata ricoverata a Camerino. L’unico dubbio che ho è questo».

Esperienza difficile?

«Direi proprio brutta non tanto per il male che uno ha o per certi esami ai quali  quotidianamente sono stato sottoposto come ad esempio l’emogasanalisi, ma a livello psicologio. Da solo, lontano dalla famiglia. A volte ho pensato: ma se dovessi morire neanche in quell’occasione avrei i familiari vicino!».

Medici, infermieri, personale sanitario…

«È un obbligo menzionarli perché bravi professionalmente e, soprattutto, di una umanità davvero rara. Sperando di non dimenticare nessuno voglio ringraziare il dott. Spinaci, le dott.sse Bevilacqua e Castriotta, i dott. Braconi e Micucci. Senza dimenticare tutti gli infermieri e anche le donne delle pulizie. Mi hanno aiutato e sostenuto. Ho visto in tutti professionalità e umanità. Anche loro hanno ognuno i propri  problemi e lavorano in condizioni davvero difficili. Di loro si vedono solo gli occhi e ho chiesto di fermarmi, se un giorno mi incontreranno per strada, per presentarsi e perché li voglio ringraziare guardandoli in faccia col quel sorriso che penso hanno di certo perché lo si capiva dal loro sguardo. Pensa a fare l’emogasanalisi, dove devono trovarti l’arteria, con i guanti, tutti incappucciati, con gli occhiali che a volte si appannano pure. Lavorano in condizioni molto difficili. Qualcuna mi diceva: noi abbiamo paura quanto voi, abbiamo famiglia. Poi negli ultimi giorni avevano le tute, quelle bianche che assomigliano a quelle della Nasa. Nei primi giorni erano senza dispositivi di sicurezza adeguati».

Tutto bene, alla fine…

«Una cosa brutta la voglio dire: le zanzare. Ad un certo punto mi sono fatto mandare da casa un fornelletto di quelli elettrici che le attirano e le abbattono. Una mattina mi sono svegliato e mi sono ritrovato tutto punzecchiato tanto da chiedermi: e adesso cosa mi è successo? Erano state le zanzare. Paolo, a sua volta, mi ha raccontato che la sera prima di coricarsi con un asciugamano dava la caccia alle zanzare e infatti i muri delle camere sono tutti sporchi di macchie di sangue per le zanzare abbattute».

Evasio Santoni

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