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JESI «Vorrei che fossi qui con noi, mamma»

«E vada per i soliti fiori, ti piacciono di sicuro: auguri anche a te»

JESI, 10 maggio 2020Quando hanno inventato la Festa della Mamma, io c’ero.

Jesi non era come la vedi oggi, io e gli altri ragazzini portavamo i pantaloni corti, ma già sapevamo che cosa era passato, nel dopo guerra, per le vie della nostra città. Ce lo raccontava soprattutto mio nonno, lui, figurati, medaglia d’argento alla prima guerra mondiale, decorato a Trieste dal Re in persona «per aver, con sprezzo del pericolo, mantenuto la difesa di una postazione di mitragliatrice sul Carso», o cose del genere. Forse i nemici non l’avranno neanche visto, Gigetto, era piccolo ma un orefice col cuore così. Amico di Nenni.

Erano anni in cui, forse per esorcizzare il passato, si festeggiava, ci si trovava con gli amici, dischi e mangianastri, chitarre e scampagnate.

La libertà, come dice Giorgione Gaber, era davvero partecipazione. Tanto è vero che partecipavano tutti in famiglia, mia madre era la prima pronta a partire. Prendevamo piano coscienza di quello che era successo, di quello che stava succedendo in alcune parti del mondo. La guerra, il nemico, appartenevano ormai, agli altri.

Negli anni abbiamo sempre ricordato affettuosamente la festa della mamma, soprattutto perché io e mio fratello dovevamo ringraziarla per farci perdonare le marachelle e le arrabbiature che le regalavamo quotidianamente.

Questa festa laica è entrata in casa nostra lentamente, intorno agli anni sessanta, ma, cara Fulvia, l’unico regalo che volevi era che facessimo il nostro dovere.

Io sicuramente talvolta non ti ho soddisfatta, ma purtroppo ce se ne accorge soltanto tardi. Troppo tardi.

Però, lo confesso, ho deciso di raccontare tutto in un chiamiamolo libro che sto scrivendo, titolo provvisorio “Le confessioni di un ottuagenario”, va bene, ricorda qualcosa, ma per ora è provvisorio e uscirà solo se e quando arriverò agli ottanta. Ehi, voi, e soprattutto tu, nessuno/a si senta escluso. Comunque si stava tutti insieme, sotto al Chiostro, e questo ci ha sempre fatto festa.

Oggi leggevo che, in occasione della festa della mamma, celebrata in pieno Covid-19, non possiamo farle mancare un regalo, un pensiero, un fiore che ristabilisca una comunione d’affetti e ci faccia essere più forti ed uniti. Anche se lontani.

Henrietta Fore, direttore esecutivo dell’Unicef, ha detto che «questa è una festa della mamma particolarmente toccante, poiché molte famiglie sono state costrette a separarsi durante la pandemia di coronavirus».

Il solo pensare che qualcuno che ami è stato, fino ad una settimana fa, di casa a cento metri da te e non hai potuto neppure vederlo (quante madri trafficano con la video chat???), fa stare male.

È tutto vero, combattiamo come nonno contro gli Austriaci nella prima guerra mondiale (chissà se avrà mai saputo che Hemingway era autista di ambulanze della Croce Rossa sui campi di battaglia) solo che Gigetto aveva il nemico di fronte. Noi lo abbiamo, pur non vedendolo, dappertutto. Strano, no?, ma è così.

Lo abbiamo perché circonda la nostre città, non gli frega di Federico II, si intromette nelle nostre vite, in modo subdolo, non gioca a pallone, come si usava addirittura fare, durante i momenti di tregua in guerra, col nemico. Al triplice fischio finale, ognuno tornava nella sua trincea. Macché, il calcio e gli altri sport lo fanno arrabbiare ancor di più.

Lo abbiamo perché ce lo ingigantiscono, aumentando l’odio e non la ragione, quanti cianciano attraverso i media facendo diventare il Covid-19 un caso che solo la politica può risolvere. A colpi di decreti e de-cretini. C’è chi rischia di perdere non la bussola ma il proprio centro di gravità permanente.

Cara Fulvia, da piccoli non abbiamo mai messo completamente a fuoco che, al di là della frase preconfezionata e sdolcinata, il centro del nostro mondo è la mamma. Vabbè, noi italiani saremo anche mammoni, ma chissenefrega!

Col tuo bagaglio di amore e cultura, ci hai raccontato di quando si stava male, di quanto è stato difficile uscire dalle macerie della guerra e guardare in faccia il futuro. E crescere, insieme, con idee sane. Adesso siamo sotto pressione e, credimi, vorrei che fossi qui con noi, in primis perché ci saresti ancora, secondo perché sicuramente i tuoi discorsi ci avrebbero tirato un po’ su, uscendo dal tetro umore che, a stento, nascondiamo dietro una patina d’ironia.

Vabbè, vada per i soliti fiori, ti piacciono sicuro, non hai borbottato mai!

Auguri anche a te.

Giovanni Filosa

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