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Cronaca

JESI Covid19, il dottor Marco Candela: «Ci sono tante cose da imparare»

Il direttore dell’Unità di Medicina Generale del “Carlo Urbani”: «Vedere i pazienti tornare a casa dopo una degenza difficile e sicuramente pesante ha ripagato di tante fatiche»

JESI, 19 luglio 2020Non inizia col piede giusto la chiacchierata col dottor Marco Candela, direttore dell’Unità di Medicina Generale dell’ospedale “Carlo Urbani”.

Mi capita spesso ultimamente, sarà l’anagrafe. Perché, affrontando il tema che concerne l’Ambulatorio Integrato post Covid19, non riconosco la primogenitura a Jesi.

Candela dottor

Il dottor Marco Candela

Per cui la “rettifica” in fil di lama è: «L’ambulatorio integrato post Covid19 è il primo delle Marche! – mi corregge il primario -. Quando, intorno alla metà di aprile, insieme alla dottoressa Anna Maria Schimizzi, al dottor Massimo Mari, psichiatra, e altri illustri colleghi abbiamo cominciato a vedere qualche squarcio di luce nel buio che la pandemia aveva creato sin dal suo insorgere, ci siamo chiesti: “Sui pazienti che abbiamo avuto in cura da noi, e dei quali conoscevamo molto poco, quali saranno gli effetti a medio e anche a più lungo termine, una volta tornati a casa? Quali saranno le evoluzioni clinico radiologiche e non solo? Tutte le considerazioni, i vetri smerigliati e le consolidazioni che abbiamo visto, quali risultanze porteranno sulla funzione polmonare e non solo?”».

«Domande lecite, quelle che ci siamo posti. Perché questo virus, caro amico, ha dimostrato di poter colpire molti apparati e organi del corpo umano, praticamente ovunque. Le sue ripercussioni sistemiche sono le più varie, quindi abbiamo pensato di dover capire quali disabilità, in sostanza, potrebbero rimanere a carico e sul paziente. Non si può non dire, poi, che questa non sia la classica situazione di stress post traumatico, che provoca disturbi gravi dal punto di vista mentale. Cosa abbiamo visto in questi mesi? Che il Covid19 è una malattia composita, che poteva portare solo alla somma di idee che garantissero una presa in carico globale, coinvolgendo l’infettivologo, l’internista, lo pneumologo, il fisiatra, lo psichiatra e lo psicologo, il farmacologo, scienziati che servono a creare un metodo innovativo sia per le manifestazioni evidenti sia per quelle che potrebbero comparire in seguito».

Durante l’emergenza Covid

«L’Asur ha istituito un tavolo di lavoro, al quale abbiamo partecipato. Al termine, abbiamo redatto un documento, condiviso con le altre realtà aziendali, che in sostanza lanciava l’idea di un ambulatorio integrato. Una determina regionale, la n. 750 del giorno 15 giugno 2020, avente ad oggetto “organizzazione del percorso di follow up e di valutazione degli outcomes a medio e lungo termine”, norma la strutturazione di questi ambulatori. Questa situazione ha fatto da volano, ovviamente, nel territorio».

Come si muove questo team di medici che si trovano di fronte dei pazienti dimessi dopo aver subito il Covid19?

«A pensarci, fa venire in mente una commissione d’esame. Ma non è esattamente così. Il paziente, e i suoi familiari, si trovano seduti di fronte a cinque o sei specialisti, dai quali parte subito la domanda di rito al paziente ex Covid: come sta? Cosa è cambiato rispetto alla sua vita precovid? e, a seguire, domande specifiche rivolte dai vari colleghi oltre a test approfonditi dal punto di vista psicologico. In sostanza siamo sicuri che sia determinante la condivisione delle problematiche che ogni paziente presenta prima o durante il percorso riabilitativo. Per ora stiamo lavorando solo coi pazienti che sono stati ricoverati all’ospedale di Jesi e, nonostante mascherine, bandane, occhiali e tutto quel che ci “separava”, si è creata comunque una empatia solida che ci ha fatto capire quanto essi abbiano gradito il nostro approccio, questa offerta di aiuto, che vede e vedrà tutti coinvolti, familiari compresi. I quali, poveri anch’essi, nei momenti di contagio acuto erano distanti, sapete che il contatto avveniva soltanto via telefonino o tablet. Anche i familiari si sono resi conto di come la malattia sia stata affrontata, e che noi abbiamo fatto tutto quello che era possibile per i loro cari».

Cosa avete riscontrato nei primi pazienti che avete convocato e incontrato?

«Una maggiore necessità di approfondimenti in ambito pneumologico, respiratorio e psicologico, oltre all’aspetto riabilitativo ed a quello neurologico periferico e cardiologico. L’equipe lavora in sintonia assoluta. Da questa pandemia, a fronte dei vari drammi quotidiani, ci sono tante cose da imparare, pur nell’assoluta negatività della stessa esperienza. Oggi la complessità del paziente in generale fa sì che ambulatori mono specialistici siano destinati a scomparire, perché siamo tutti convinti che la valutazione del paziente venga fatta da un gruppo di lavoro coeso e consapevole. Per non avere, ovviamente, una visione parcellare del problema. Dobbiamo metterci nelle condizioni di creare percorsi virtuosi, ci siamo resi conto che quello che è stato veramente negativo per i pazienti è stata la lunga attesa a casa senza uscire per poi arrivare, spesso in ritardo, al pronto soccorso. Dove veniva intubato. Il paziente doveva essere preso prima».

Da sinistra: Sonia Bacelli, Marco Candela, Anna Maria Schimizzi

Pronti ad assorbire una eventuale seconda ondata di Covid?

«Da oggi sarà necessario un maggior rigore e ognuno dovrà parlare per le proprie competenze. A Jesi? Penso sia necessario dotare i medici di famiglia dei dispositivi di protezione, sia in termini di risorse umane che in termini di presidi. Potenziato ancor di più il percorso di radiologia, importantissimo, che ha permesso terapie mediche e valutazioni diverse. Abbiamo imparato tante cose, per fortuna abbiamo strutture attivate anche precedentemente e direttive mirate in tal senso a livello superiore. Il problema è che siamo usciti da un’emergenza sanitaria e siamo entrati in un’emergenza organizzativo assistenziale. Ci troviamo con personale stanco, in periodo di ferie, e dovremo cercare anche di recuperare le visite ambulatoriali che non abbiamo potuto effettuare prima. Stiamo cercando una quadratura del cerchio. Ecco perché ritengo importante anche un approccio da remoto. Non c’è bisogno di creare un’emergenza clinico organizzativa, Jesi ha sempre mantenuto le attività chirurgiche, tutto il dipartimento materno infantile, l’unità intensiva coronarica, molti “letti puliti”, qui c’è sempre stata la possibilità di non essere considerato un Lazzaretto, anche con un numero di pazienti no covid. Vedere i pazienti tornare a casa dopo una degenza difficile e sicuramente pesante ha ripagato di tante fatiche: marzo e aprile sono stati mesi in cui ci siamo molto affidati al buon senso».

Giovanni Filosa

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