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Cronaca

JESI PALAZZO DEI CONVEGNI, IL RACCONTO DI GIOVANNI IMPASTATO: “ECCO CHI ERA PEPPINO, ASSASSINATO DALLA MAFIA”

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(foto Pienne)

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JESI, 18 febbraio 2016 –  «La mafia non è antistato, perché l’antistato, come è successo per il terrorismo, si combatte e si vince. La mafia è nel cuore dello Stato, l’intreccio perverso con la politica, gli appalti, la gestione dei soldi pubblici è la sua linfa vitale. E solo attraverso nuove strategie economiche e sociali si potrà riuscire ad estirparla».

Non ha avuto peli sulla lingua, Giovanni Impastato, fratello di Peppino, giustiziato da Cosa Nostra nel ’78, durante l’incontro promosso al palazzo dei convegni – pieno in ogni ordine di posti –  dal presidio jesino di “Libera”, associazioni, nomi e numeri contro le mafie. Ad essa aderiscono oltre 1600 tra associazioni nazionali e locali, cooperative sociali, gruppi e realtà di base e circa 4500 scuole attive nei percorsi di educazione alla legalità democratica.

A proposito.  Giovanni ha specificato meglio, nel corso del suo intervento, il concetto di legalità che «è rispetto dell’uomo e della sua dignità e le leggi devono essere emanate proprio in funzione della dignità dell’uomo. Altrimenti, si capisce bene come l’obbedienza alle stesse leggi non sia sempre una virtù».

Preceduto dall’intervento del vice sindaco, Luca Butini, e presentato da Francesco Coltorti, Giovanni Impastato ha raccontato la storia e la tragica morte del fratello Peppino, il 9 maggio 1978,  in un momento nel quale l’Italia già era stata colpita duramente dal rinvenimento del cadavere di Aldo Moro, a Roma, ucciso dalle Brigate Rosse.

«Siamo cresciuti a Cinisi, paese a 30 km da Palermo, in un contesto agricolo dove tutto era permeato dalla mafia, che si presentava come soluzione a tutti i problemi ma dietro c’erano sempre tante minacce e tanta violenza. La mia famiglia era di origine mafiosa, mio padre, Luigi, ne faceva parte attraverso il legame con   Cesare Manzella, il cognato, capo della cupola negli anni Sessanta. Quando zio Cesare saltò in aria a  causa di un’autobomba, nel 1963, le cose cambiarono per tutti».

In questo contesto l’allora quindicenne Peppino Impastato ebbe una sorta di illuminazione che lo portò alla fase di rottura con quel mondo che lo aveva allevato sino ad allora e «mi disse da subito che si sarebbe battuto sempre contro la mafia». La sua militanza nell’estrema sinistra sarà in seguito un motivo perfetto per depistare le indagini sulla sua morte.

Provenire da una onorata famiglia e nello stesso tempo trovarsi a combattere l’onorata società fu un qualcosa di dirompente.

«Peppino andò avanti per la sua strada, nel ’70 con il giornale “Idea socialista”, dove evidenzia gli strani rapporti mafia-politica, difende i contadini dagli espropri ingiusti, mette il dito in diverse piaghe. Quindi, fonda il circolo ”Musica e cultura”, punto di riferimento giovanile di Cinisi, dal quale partone le denunce verso l’operato mafioso, lo scempio del territorio, l’abusivismo, la devastazione delle coste».

La svolta si ha nel 1977 con Radio Aut – in pieno boom dei canali privati – dove, nella trasmissione “Onda pazza” Peppino attacca, usando l’arma della satira, i politici locali, si fa beffe dei capi mafia e il suo bersaglio preferito è Gaetano Badalamenti, il boss dei boss degli anni ’70.

Don Tano lo minaccia, a nulla valgono le manovre del padre, Luigi, che chiede aiuto anche negli Usa. Prima verrà ucciso lui, il 19 luglio del 1977, investito da un’auto e, dopo circa un anno, toccherà a Peppino.

«Lo rapirono all’uscita dalla radio e lo fecero saltare in aria sui binari della ferrovia».

Cento passi” – titolo del film di Marco Tullio Giordana – separano la casa degli Impastato da quella del mandante dell’assassinio.

La storia successiva ci racconta di indagini “deviate” e depistaggi, tanto che solo l’11 aprile del 2002 si arrivò alla sentenza di condanna all’ergastolo per Tano Badalamenti morto a 80 anni nel carcere di Ayer in Usa.

«Gli esecutori materiali non furono mai condannati…».

(p.n.)

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