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JESI Una città di personalità o di persone?

A proposito dell’articolo di “Repubblica” che esalta le glorie cittadine all’indomani della vittoria all’Europeo di calcio

JESI, 16 luglio 2021 – L’articolo di Repubblica uscito qualche giorno fa su Jesi, definito da alcuni bellissimo, presenta alcune criticità.

In primo luogo, nel rendere omaggio al Ct della nazionale, esalta le glorie cittadine, dimenticando, nella narrazione approntata, una parte consistente della città, quella proprio dei quartieri in cui Mancini è cresciuto e ha tirato i suoi primi calci al pallone.

E’ la Jesi dei quartieri sud, dove si è festeggiata la vittoria con petardi e campane, preghiere e porchetta, ma che poi ritornerà ai problemi – irrisolti – di sempre.

La Jesi che prima ancora di avere strade pulite, le ha congestionate dal traffico – inquinante – e i suoi viali hanno più auto parcheggiate che alberi. E’ la Jesi di case popolari e di immigrati da diverse generazioni che, nei fatti, sono più jesini doc di molti parvenu

La Jesi dei precari e dei pendolari che con i pochi mezzi pubblici sciamano nelle ultime fabbriche della zona per un lavoro sempre più insicuro, malpagato e rischioso.

C’è poco di glorioso negli infortuni sul lavoro e nelle fabbriche che delocalizzano, ma anche questa è Jesi, e se qualcuno arriva alla “stanza dei bottoni” deve dire grazie anche agli ultimi della sua città i quali, da via Roma a San Pietro, dal Prato a San Giuseppe, fino a Minonna, Sant’Anna e Roncaglia, sanno che da sempre sono i dimenticati, i separati da quella che una volta si chiamava Jesi Novo, come la definivano gli jesini dei quartieri operai, rossi e giacobini, repubblicani (non regi) e duri come la vita e il lavoro nelle manifatture.

​A separare le due zone della città c’è un centro storico ormai svuotato, dove si moltiplicano i cartelli di vendesi e affittasi, e le attività commerciali nascono e muoiono con una facilità che non è imputabile solo alla crisi pandemica.

Un centro storico cannibalizzato dalla movida, triste di un provincialismo decadente come le oligarchie che hanno sempre governato la città.

Ecco, fin qui lo spaccato di un mondo di cui l’articolista di Repubblica non parla affatto. Poco male. Ci sono altri che lo fanno e amano guardare alla realtà senza autoincensarsi.

C’è però un’altra criticità dell’articolo in oggetto, e riguarda proprio il santino oleografico presentato, come qualcuno lo ha definito. Se qualche jesino è arrivato lontano è perché è stato costretto ad andare via da una città e da una regione che alla sua classe dirigente ha poco da offrire.

Se qualcuno è arrivato nella stanza dei bottoni, questa sarà preclusa a tutti gli altri. Nell’Italia della deindustrializzazione e dell’assalto selvaggio ai servizi, la mobilità sociale pari a zero riguarda classi lavoratrici e classi dirigenti. Anzi, a molti dei figli di una borghesia piccola piccola, che sperano in chissà quali scalate future, potrà accadere più facilmente di essere oggetto di una mobilità sociale verso il basso, con lavori meno sicuri e meno pagati rispetto a quelli dei loro genitori.

Ecco, questo è forse il messaggio reale, fuori dai trionfalismi per la “Jesi europea”, che l’articolista manca.

Dimenticarsi degli ultimi è una consuetudine per i signori del palazzo, ma quando i problemi cominciano a toccare buona parte della futura classe dirigente, che non potrà fare altro che contendersi briciole di potere, o esserne esclusa, le prospettive diventano allarmanti sul piano sociale e su quello economico.

Giordano Cotichelli

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