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Jesi

COTTO E MANGIATO LA RUBRICA DI GIOIA MORICI

SUL SENTIERO DA ROSSIGNAC A BEAURGEOIS

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“Alla quinta ora del pomeriggio voi perirete, Messere”. “E come lo sapete?”. “Perché vi ucciderò io stesso”. “Volete darmi a intendere che potete controllare il rigoroso istante della mia dipartita da questa Terra?”. “Esattamente”. “Ma voi siete folle, Don Ferdinando!”. “Pensate pure ciò che volete, ma quello che accadrà (e possa fulminarmi il Cielo se non accadrà!) sarà che, nella cifra puntuale che vi ho testé indicata, io affonderò la spada nel vostro petto e voi esalerete il vostro ultimo respiro”. Sua Eccellenza Bernardo Goffredo Di Pal, duca di Beaurgeois nonché tenente della Compagnia francese delle Indie Orientali, lo fissò con fare altero al di sopra dei suoi lunghi baffi fulvi ed esclamò beffardo: “Corbellerie!”. Il silenzio calò nella selva, poi il nobiluomo speronò con forza il suo cavallo e quello, con un lungo nitrito, riprese il sentiero senza indugio. Don Ferdinando Degola, seduto sotto la grande quercia, rimase a rimirare la sagoma del duca finché essa non sparì del tutto all’orizzonte: incollò i suoi occhi color ghiaccio all’armatura scintillante che gli dava le spalle, scese con lo sguardo alle natiche corvine del purosangue spagnolo che Sua Altezza serrava, infine si lasciò cullare la vista dalla lunga lancia bigia che oscillava in lontananza. Quindi si grattò il pizzetto con la falda del largo cappello piumato, che poco prima si era sventolato lentamente davanti alla faccia per scacciare la calura, e ripeté tra sé e sé: “Alla quinta ora di questo pomeriggio”. Nessuno naturalmente lo udì, a parte qualche foglia di leccio sotto ai suoi stivali di cuoio e la sua imperturbabile mente che ripeté con eco severa: “Alla quinta ora di questo pomeriggio”, mentre la bocca si arricciava in un sorriso dileggiatore. Cosa alimentava tanta sprezzante spavalderia? Naturalmente il cuore. Nel piccolo borgo di Rossignac, dove Don Ferdinando era nato e cresciuto, questi conobbe la tenera donzella Griselda, figlia di un villano nonché cuoca alla corte dei Beaurgeois, e per ella perse la testa. La giovane, incantevole come la luna piena nelle notti gelide di marzo, non ne voleva sapere di ricambiare quel sentimento, tutta presa com’era dalle attenzioni a palazzo del fratello del duca, Sua Eminenza Giovanni Battista di Pal, e, fuori da palazzo, da quelle di tale Remigio Gianfigliazzi, figlio del macellaio del borgo. Tanto fu lo sgomento di cavaliereDon Ferdinando allo sdegno della pulzella, che smarrì la ragione, cacciandosi nell’irremovibile proponimento di porre fine all’esistenza di ciascheduno dei maschi della marca, per non avere più rivali e giungere indisturbato a cogliere il suo fiore. Decise pertanto di iniziare dal più potente e valoroso tra i suoi competitori, Sua Magnificenza Bernardo Goffredo, onde spargere con maggior velocità la fama del proprio merito e farlo giungere presto alle soavi orecchie della sua bella. Si convinse di infilzare il duca al termine della battuta di caccia settimanale, quando tutta la famiglia Beaurgeois al gran completo era riunita, così da dare maggiore teatralità all’evento. Per migliorare le sue doti da duellante, prese lezioni di spada ogni giorno all’alba per cinque mesi e mezzo dal maestro d’arme Henri de Cocardasse, allorquando arrivò quel venerdì di novembre e tutto, sin dal risveglio, fu chiaro: quello sarebbe stato il giorno in cui avrebbe ammazzato Di Pal. Sì recò nella boscaglia e lo aspettò, perché, da uomo d’onore, voleva avvisarlo con lealtà prima di togliergli la vita. Dopo averlo messo in guardia, tuttavia, successe un fatto inatteso: Don Ferdinando l’impavido, seduto sotto la grande quercia, anziché prepararsi a sporcare la sua spada di sangue, iniziò a sognare i baci a bocciolo della sua Griselda. E quei baci per un attimo furono così reali, che lui s’infiammò d’amore e morte in un unico irrefrenabile impeto di eccitazione. Allora si alzò di scatto nella risoluta speranza di raggiungere, correndo, Goffredo lungo il sentiero e finirlo prima del tempo stabilito. Mise così tanta enfasi nella corsa, che con poche falcate arrivò da presso al suo nemico, il quale, frattanto, si era fermato ai bordi di un lago poco distante, dove era chino per dissetarsi. “Bernardooo…” gli urlò a squarciagola posseduto dal demone dell’ira, indi gli si gettò addosso con un balzo, scaraventandolo nel fango e trattenendolo con l’assoluta violenza che aveva in grembo affinché non si muovesse. “Io vi uccido…vi uccidooo!”, gridava stringendogli come una furia il collo tra le mani, “proferite le vostre finali parole, lasciate il vostro messaggio estremo al creato, ché giammai vedrete più! Parlate, se ne avete il coraggio…io ve lo ordino, dunque!”. Goffredo Di Pal, atterrito, inerme, con le pupille sgranate verso il cielo sopra di lui, aprì le labbra in una smorfia sguaiata e soffiò qualcosa. “Più forte…tirate fuori la voce, brutto codardo! Consegnate il vostro testamento al mondo…o adesso o mai più!!”. Allora il duca, con l’anima a un passo dalla fine, raccolse tutto il fiato rimasto in petto, girò la testa all’indietro con un ultimo moto di ribellione e arditamente strillò:

“FORZA JUVEEEE!!”.

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