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L’ARTICOLO La pandemia e la crisi demografica

In appena tre generazioni siamo passati da una popolazione ad alto tasso di fertilità a una a bassissimo grado con la prima maternità a un’età della donna superiore ai 30 anni

Se c’è un problema che la pandemia covid-19 ha esasperato, questo è la crisi demografica, caratterizzata da uno squilibrio tra morti e nati quantificabile con la scomparsa aggiuntiva di una popolazione pari a quella di una città come Firenze.

In realtà tale squilibrio, sebbene in forma meno grave, era presente da tempo e accompagnato all’innalzamento dell’aspettativa di vita sollecitava già la questione della sostenibilità della società italiana nel lungo periodo.

In appena tre generazioni siamo passati da una popolazione ad alto tasso di fertilità, capace di popolare attraverso l’emigrazione vaste aree del pianeta bisognose di manodopera (Nord Europa, Americhe, Australia ), a una a bassissimo grado con la prima maternità ad un’età della donna, superiore ai 30 anni (non proprio fisiologica).

E’ un problema che coinvolge con diversi gradi di gravità, tutti i Paesi sviluppati e lo si collega prevalentemente con i progressi della medicina che permette alla maggior parte di nuovi nati di sopravvivere fino alla maturità. Infatti, laddove la mortalità infantile è elevata l’istinto porta a fare più figli per innalzare la probabilità di successo riproduttivo.

Il problema però è più complesso e vi concorrono più fattori, che cercheremo di analizzare.  

Ai tempi dei nostri nonni e bisnonni le società erano prevalentemente agricole, basate su mezzadria e scarsa meccanizzazioneServivano braccia per mandare avanti il lavoro nei campi e anche a provvedere al sostentamento degli anziani, così si facevano molti figli.  La stessa prole costituiva un simbolo di virilità per l’uomo e le istituzioni incoraggiavano questa istanza.

 L’altra dinamica determinante è stata la cosiddetta emancipazione femminile con la quale la donna, soprattutto nel mondo occidentale, ha deciso di affrancarsi dal proprio ruolo biologico subalterno al maschio, per affermare la propria realizzazione come persona, in tutti i suoi aspetti.  

L’uguaglianza di genere è il leit motiv che accompagna la comunicazione in ogni ramo della vita sociale, che si è spinto fino a una nuova moda che potremo chiamare genderizzazione, ovvero l’omissione del sesso dall’identità personale.

Anche l’aspetto estetico viene coinvolto: si è passati da un’immagine femminile dal bacino largo sormontato da due capitelli (leggi glutei) tipo creola caraibica, per capirci, ad un modello sempre più androgino. Tuttavia, non siamo certo in un’epoca vittoriana, anzi la sessualità permea larga parte del mondo rappresentativo sempre più virtuale in cui siamo immersi.

Se nel mondo antico e particolarmente in quello romano, in Medio Oriente come in India (dove ancora sopravvive) il fallo maschile dominava quale simbolo di fecondità, nel contesto moderno è il corpo femminile in tutte le salse a signoreggiare.  

I manifesti pubblicitari abbondano di labbra e unghie feline ferocemente rosse, le adolescenti ostentano impunemente i propri caratteri sessuali secondari mentre nelle copertine delle riviste patinate le eroine della società civile cedono il posto a discinte modelle siliconate.  

Il risultato però è un’apatia riproduttiva che si traduce in tanti single più affezionati al proprio cagnolino che alla potenziale progenie.

Ma ritorniamo al problema di partenza: può la società italiana sopravvivere nella sua struttura demografica presente e tendenziale?

Il quadro non è incoraggiante: già oggi i trentenni sono un terzo in meno rispetto ai cinquantenni, mentre gli over 60 dominano sempre più. Dunque, ci si domanda come provvedere alla forza lavoro che serve per far funzionare il sistema e soprattutto come finanziare il sistema pensionistico e di wellfare?

Il nuovo paradigma che si va affermando considera che i progressi della medicina accompagnati ai presidi che l’automazione e la rivoluzione digitale mettono a disposizione, consentono a un lavoratore di essere produttivo e dunque di continuare a produrre ricchezza da ridistribuire, anche a un età finora considerata off limits.

E’ solo una questione di strategia di gestione delle risorse umane che potrebbe affiancare un operatore diversamente giovane e dunque con alto patrimonio esperienziale, particolarmente per  mansioni fisicamente gravose, a lavoratori attinti dall’enorme bacino dell’immigrazione.

E’ un paradigma condivisibile ma quello che serve ancora sono cervelli giovani creativi e innovativi capaci di aprire nuove strade allo sviluppo di un Paese.  

Il problema della denatalità resta e non può essere risolto con dei flebili bonus bebè perché coinvolge dinamiche, come la sperequazione sociale, intrinseche all’attuale sistema che la pandemia ha semplicemente amplificato. (segue )

Bruno Bonci

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