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L’intervista Maria Ottavia Maceratini: pianoforte, armonie, frequenze e dissonanze -VIDEO

«Seguo la mia strada, che è quella di una mia libertà interiore senza volermi adattare a canoni già pronti e nei quali inserirmi»

Da casa sua, da dove scorgi, al di là delle colline, uno schizzo su tela di Macerata e, dall’altra parte, i monti che degradano verso l’Adriaco mar, come diceva un poeta, suoni al cancello Maceratini ed entri in un mondo a parte, un grande spazio in cui dominano libri, dischi (intesi anche come cd), alcuni ambienti creati per accogliere amici e raccogliere sensazioni.

Fuori, dalla grande vetrata, vedo un cane muoversi indeciso, ha tracciato il suo solco in un giardino, un cane stanco di guerra e di botte. Timido, ci guarda, poi nasconde la coda, segno di una paura ancora non elaborata ma si vede che è sulla giusta strada.

«L’abbiamo adottato», dice Maria Ottavia Maceratini, «è ora un nostro familiare».

Ottavia, come la chiameremo da ora, è un talento pianistico innato.

Nasce a Recanati, vive e ha vissuto fra Italia e la Germania, dove ha compiuto studi sudati e profondi, che le hanno permesso di trascorrere una parte importante della vita (ha poco più di 35 anni) a ripetere movimenti che non assalissero gli 88 tasti ma che chiedesse loro una risposta. Continuamente. Rifugge il brusio interessato ma poco interessante delle ribalte alla moda.

La sua formazione è in continua evoluzione, la sua passione per la psicologia studiata all’Università di Urbino e per le arti marziali giapponesi  (è cintura nera e attualmente detiene il quarto dan nella disciplina del Bujinkan, come dice il suo curriculum), completano una parte del ritratto della ragazza e dell’artista.

«Studio, poi concerti, davvero il cammino per conoscere se stessi e conoscere l’autore di cui esegui la musica, è duro. Il talento è una parola, la mia è pura energia».   

Cosa è per te il pianoforte? Uno strumento, un compagno di viaggio e di riflessioni…

«E’ tutto questo e non solo. Nel mio caso, in particolare, è uno strumento di auto conoscenza. Mi aiuta a comprendere che ognuno di noi può essere a sua volta uno strumento. Capaci di esprimere armonie, emettere frequenze, risolvere delle dissonanze».

Musica come poesia, filosofia, matematica, riflessione, psicologia…

«Non lo so cosa sia. E’ proprio questa la bellezza di uno studio che va sempre più in profondità – che non si ferma alle definizioni, sempre provvisorie e inevitabilmente parziali. Io non studio cose diverse, le diversità sono solo apparenti e riguardano la superficie. Ciò che conta è che si tratta di espressioni della coscienza. Ed è questo fondo comune che mi interessa». 

Sai già dove vuoi arrivare quando hai davanti agli occhi la partitura di un compositore qualsiasi?

«No, è una scoperta. La bellezza di entrare in contatto con una partitura è il desiderio dell’incontro con l’autore e, ad un livello molto profondo, questo è possibile. In sostanza si vive insieme all’autore esperienze analoghe, pur se vissute in periodi e momenti tanto lontani fra loro e nonostante il filtro delle rispettive soggettività. L’esecuzione diventa un’esperienza intersoggettiva».

Cosa è una partitura? C’è dentro tutto quello che l’autore voleva scrivere?

«E’ una specie di schizzo, un abbozzo, no, non c’è tutto. E’ un linguaggio convenzionale, segni in nero su bianco, in una partitura non ci può entrare tutto quello che il compositore voleva fosse espresso o potesse essere espresso. Un canovaccio, dai. Dopo di che, ci sono dei principi, all’interno della musica, dei rapporti insiti nella natura del suono, rapporti di frequenze, questioni inerenti il materiale sonoro. Il problema è quando un musicista ci vuole mettere del suo, nel senso di voler essere originale a tutti i costi, non autentico, ma originale, che è diverso: essere originali per una ragione di mercato, per ricavarsi un posto sul mercato. Non per la musica. E’, inevitabile, credo, esprimere anche se stessi suonando la musica di un altro autore, certo che ci sono anche io, c’è anche il mio cuore nell’esecuzione. Però è un altro conto, è arrogarsi il diritto di voler fare le cose in modo diverso, soltanto perché si cerca l’eccentricità, invece di un ascolto profondo. Allora, viene a cadere il dialogo col compositore, diventa esclusivamente un’esibizione (nel senso meno nobile del termine) dell’artista che esegue». 

Con quale compositore andresti a cena, al di fuori dei valori temporali e storici?

«Con tutti, ogni compositore ti insegna molte cose su come navigare la realtà emotiva e mentale. Ti prepara a sentire, focalizzare l’attenzione su certe frequenze, certi aspetti del sentire e del percepire che tu talvolta non noti.  Se un compositore viene affrontato con la giusta serietà, oltre alla sua sonorità e alla sua unicità stilistica, si scopre tutto quello che trascende l’epoca in cui è vissuto, si scopre la sua anima».

C’è chi ti ha definito una professionista, un talento che talvolta urta con la strada che la musica prescrive…

«Non è la musica a farlo, è il business. Personalmente ho avuto la fortuna di andar via molto presto, di studiare e confrontarmi con reti lavorative e grandi scuole all’estero, e questo mi ha posto sotto gli occhi – e dentro la mia mente – un altro modo di vedere e di aprirti al mondo, tanto che ti accorgi che un certo tipo di cultura ha interessi o approcci artistici diversi da quelli considerati standard. Seguo la mia strada, che è quella di una mia libertà interiore senza volermi adattare a canoni già pronti e nei quali inserirmi. La meraviglia di un essere umano è la possibilità di scoprirsi nuovo ogni giorno, in ogni fase della sua vita, e trovare risposte interiori che non conosceva». 

Quanto aiuta la spiritualità interna?

«E’ l’alfa e l’omega. La ricerca artistica, quando è ricerca realmente impegnata, molto spesso è rivolta verso la ricerca di un nucleo più profondo di noi stessi, che va aldilà della persona che pensiamo e crediamo di essere.

Preferisci uscire dalla nostra terra, le Marche, per esprimere la tua idea di musica?

«Le Marche sono la terra che amo, ma certe dinamiche mi fanno comprendere che sia una terra, come posso dire, molto lottizzata, in cui si trovano tanti piccoli giardini, recinti, confini, per entrare nei quali sono necessari certi lasciapassare, che io non possiedo sono interessata a possedere. Ma non è il mio primo pensiero, questo, sono convinta che ogni giorno incontriamo, sul nostro cammino, tutto quello di cui abbiamo bisogno». 

Tu “balli da sola”?

«No, sono molto aperta al dialogo con altri strumenti, quando c’è la possibilità lo faccio, è vero che preferisco il repertorio solistico ma non disdegno assolutamente coltivare anche il repertorio cameristico. A breve avrò dei concerti con gruppi di musica da camera, che considero una esperienza vitale, per un pianista, per la comprensione di un autore».

Cosa è la tua Itaca?

«I miei affetti profondi».

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