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Jesi La vita e l’arte di Marta Mancini: «Di là c’è sempre qualcosa»

L’artista dal suo osservatorio in Chiostro Sant’Agostino: «Le mie ultime opere sono più rarefatte, in qualche modo ingannano lo sguardo che punta, almeno questo vorrei, verso orizzonti immaginari»

Jesi, 6 ottobre 2022 – L’artista Marta Mancini dal suo osservatorio in Chiostro Sant’Agostino, con affaccio su un cortile che potrebbe essere un testimonial del centro storico di Jesi e che forse un giorno (speriamo di esserci) lo diventerà, esce spesso, le piace guardare fuori, esplorare nuove pulsioni, rendersi conto di dove siamo arrivati non solo in campo artistico.

Misura col suo metro preciso, deciso come fa un politico al suo ennesimo cambio di casacca, guarda avanti e guarda indietro. Con nostalgia, sublime e poetica come nell’omonimo film di Andrej Tarkovsky, centellina il passato concentrandolo sul presente. Usando colore, forma e materia per scavare il linguaggio poetico. 

Recentemente era a Venezia, alla Biennale d’arte. A parte che visitare la Biennale è, per un artista, come per noi mangiare la pizza di Pasqua a Pasqua e dintorni, non è rimasta molto soddisfatta dalle nuove tendenze.

Cosa hai ricavato dalla esperienza veneziana?

«Ho visto edizioni più accattivanti, molto più ricche. E’ vero che, oggi, l’arte contemporanea è quella, però le cose migliori, neppure tante, sono state collocate fuori degli spazi della Biennale»

La tua cifra, la tua idea artistica qual è?

«La ricerca interiore c’è sempre, quello è il vero motore di ricerca. Molti artisti si affidano ovviamente alle sensazioni e agli input che provengono dall’esterno, da quello che sta accadendo intorno a noi, superando il personale».

Il tuo momento attuale: in evoluzione, con una precisa identità, però. Dove sei cambiata?

«Grossi cambiamenti non ci sono mai stati, forse ci sono dei ritorni, per esempio alla venatura, che mi ricordano certi momenti del periodo accademico. Perché i ritorni? Uno non lo sa, ti accorgi che ci sono intuizioni, punti di partenza ma alla fine non sai dove andrà il tuo lavoro. Il mio “ritorno” è stato nel voler togliere la materia invece di aggiungerla. Esempio, oggi ho lavorato su di un trittico dal quale ho tolto via addirittura il colore con lo straccio. Ne nascono composizioni rarefatte che mi ricordano molto i primi lavori che facevo in accademia, all’epoca forse ancora più sofferti, per via, ovviamente, della insicurezza iniziale. Oggi, ovviamente, il lavoro è più maturo, più sicuro ma l’insicurezza, davanti alla tela bianca, c’è ogni volta che inizio a lavorare». 

Se ritornassi a esaminare tue vecchie opere, le lasceresti così come sono o avresti voglia di aggiungere o modificare, con l’occhio e l’esperienza di oggi?

«Assolutamente no, lì non c’è il ritorno né tanto meno la voglia di mettere mano, quando decido che un’opera è conclusa, è conclusa. Non cambierei nulla, magari completerei qualcosa di recente lasciata in stand by. I lavori realizzati nel post accademia restano dove e come sono, perché mostrano la sofferenza o l’insicurezza di quando li ho creati. Quando sei solo con te stesso –  il periodo della scuola o dell’accademia in qualche modo viene guidato – è il momento in cui devi dare ed esprimere il massimo di quello che hai appreso, di quello che ti è rimasto e che forma il tuo substrato artistico e culturale». 

Cosa è il ricordo?

«E’ una grossa componente della mia vita, oltre che della mia ispirazione. Il mio lavoro chiamato “Oblio” è nato come se volessi liberarmi del ricordo stesso, che non sempre regala gioia, qualche volta mi opprime. Quello della mia infanzia, per esempio, è bello però sento sempre tanta nostalgia, anche se non ho avuto episodi traumatizzanti che possano avermi cambiato dentro, profondamente. Sono ricordi belli, vero, però mi mettono malinconia. Penso ai miei nonni, alle persone che non ci sono più, un vissuto familiare che appartiene all’infanzia è sempre importante ma alla fine mi regala un senso di malinconia. Perché la verità è che il tempo passa e certe cose non torneranno più, non ci saranno gli stessi momenti e le medesime sensazioni. Cerco di non rivangare il passato».

Il tuo rapporto con la materia?

«Quello col colore a olio è stato sempre importante. E’ una materia molto versatile, che mi permette di creare degli spessori, opere più materiche oppure creare una elasticità del colore che solo l’olio può dare. Ultimamente sono molto legata a questa tecnica tanto da mettermi in gioco utilizzando, per esempio, l’olio su carta, un approccio diverso dalla tela».

Le opere realizzate, nel tempo, mi hanno sempre dato l’idea di confini, di pianure che offrono ai miei occhi una proiezione dell’infinito, diciamo del futuro, che tu immaginavi al di fuori dell’orizzonte. Ora?

«Sto lavorando su di un trittico in cui l’orizzontalità è rimasta ma il fatto che arricchisca l’opera di sfumature, rende tutto più aperto. I lavori materici sono un po’ più duri, le ultime sono più rarefatte, in qualche modo ingannano lo sguardo che punta, almeno questo vorrei, verso orizzonti immaginari. Di là c’è sempre qualcosa, ecco perché bisogna guardare avanti e non indietro. Nella vita e nell’arte». 

Il tuo punto di riferimento nella completezza del pensiero artistico e filosofico?

«Rotko, certamente, un artista che ho sempre amato, anche la sua vita, il suo tormento, il fatto che le sue tele, che sembrano così tranquille, in realtà dietro c’è un enorme tormento. Ha sempre creduto nel suo lavoro, al di là del compenso degli eventuali committenti».

Qual è l’approccio coi tuoi allievi?

«Mi seguono moltissimo. All’inizio debbono immergersi al meglio nelle tecniche del disegno, basandosi sulla storia dell’arte, non possiamo inventarci nulla di nuovo se non sappiamo quello che è successo prima di noi. La creatività? Non è così profonda, almeno all’inizio, però le basi serviranno (disegno e tecnica) per creare una creatività autonoma». 

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