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L’ARTICOLO Considerazioni per la gestione del debito pubblico italiano

Conviverci non vuol dire indulgere su un sistema che lascia alle future generazioni un pesante fardello

Una terza via per gestire il nostro debito pubblico è la convivenza, come fa il Giappone. Questo paese negli anni ’80 era considerato la tigre asiatica per eccellenza, il cui modello economico, divenuto di riferimento per gli accademici, ne consentiva un tale ritmo di crescita da far prevedere la sua ascesa al ruolo di prima potenza economica del pianeta. Parallelamente crescevano a dismisura sia le quotazioni azionarie che quelle immobiliari, tanto che il valore dei terreni edificabili a Tokio erano divenuti stellari, come quelli dei tulipani maculati ad Amsterdam nel XVII secolo, di cui seguirono lo stesso destino. Tra il 1989 e il 1990 la bolla speculativa giapponese implose dando inizio a un lungo periodo di stagnazione economica.

Da tempo si è creato una specie di rapporto simbiotico tra lo stato che si indebita per garantire un alto livello di welfare e una popolazione refrattaria all’immigrazione, con un’alta percentuale di anziani “risparmiosi che sottoscrive le emissioni del debito pubblico. Questo garantisce stabilità alla situazione debitoria del Giappone che sebbene abbia un rapporto debito/Pil prossimo al 300% (quello dell’Italia è 160%) ottiene dalle agenzie di rating la massima valutazione (AAA).

Gli italiani, complici l’invecchiamento della popolazione e una certa sfiducia nel futuro, sono i più “risparmiosi” d’Europa, sebbene i dati ci dicano che solo il 25% della ricchezza accumulata finisce in asset domestici

Sarà possibile ritornare ai famosi anni ’90 quando per essi valeva l’appellativo di Bot people, tanto era la devozione verso i titoli del debito pubblico nazionale? Non sarà facile, perché allora le cedole garantivano un rendimento del 10%, in lire, mentre attualmente conferiscono poche briciole.

Farsi attrarre da alcune sirene come le azioni di Amazon pubblicizzate con i corposi rendimenti passati, potrebbe essere peggio. Il mercato dei titoli tecnologici americani è in bolla e il giorno che scoppierà appariranno amare sorprese rappresentate dalla leva, indebitamento, che gli speculatori hanno approntato nel tentativo di battere il ferro finché caldo. Il che vuol dire approfittare delle quotazioni che salgono, prevalentemente per la liquidità che la banca centrale (Fed) ha immesso nel sistema. Un assaggino si è avuto con la vicenda di un fondo speculativo (hedge fund) dal nome accattivante, Archegos, le cui scommesse andate male hanno determinato pesanti perdite per milioni di dollari a due importanti banche internazionali (Nomura e Credit Suisse) che gli avevano prestato i soldi.

Quando la bolla scoppia si generano insolvenze a catena tra gli intermediari istituzionali che dovrebbero garantire la liquidità del sistema (dealers), determinando un collasso finanziario come già sperimentato nel 2008. Peccato che la bramosia del guadagno facile annebbi la memoria.

Un altro oggetto che attira molto i risparmiatori sono le criptovalute come il bitcoin, una pseudo moneta digitale basata sulla blockchain, una tecnologia che potremmo rappresentare con una catena anonima di notai che registrano le transazioni e vegliano affinché la massa inizialmente immessa nel mercato, non venga alterata. Gli scambi delle criptovalute avvengono on line su siti fiduciari senza che nessuna istituzione statale possa controllare. Per cui, se si è truffati, si finisce come l’Aretino Pietro.

Ufficialmente i pareri sfavorevoli all’adozione delle criptovalute fanno riferimento al fatto che la gestione è fortemente energivora, ma le ragioni serie stanno altrove. Battere moneta infatti è una prerogativa che conferisce autorità ad uno Stato il quale non potrà indulgere all’emissione di una divisa privata. Ad aprire le danze è stata la Cina le cui autorità hanno ribadito che non tollereranno mezzi di pagamento elettronici al di fuori dello yuan, o renminbi, digitale, a cui è seguito il sermone minaccioso dell’attuale presidente della Bce, Christine Lagarde verso i patiti delle cripto.

Credo che in questo momento indirizzare i propri risparmi verso asset nazionali, soprattutto il nostro sistema di piccole e medie imprese attraverso i Buoni Postali, i Pir a rate (Pac) e il crowdfunding sia una scelta premiante nel lungo periodo. Già, perché se dall’emergenza sanitaria lentamente ne stiamo venendo fuori, quella economica rimane tutta in piedi, mascherata da provvedimenti come il blocco dei licenziamenti, che non potranno durare per sempre.

E comunque una domanda è lecito porsela e cioè: lo Stato italiano può fallire?

La risposta è un ragionevole no, per almeno tre ragioni.

La prima è che la gran parte del debito pubblico è in mano a investitori istituzionali, alcuni dei quali hanno le spalle larghe come la Bce.

La seconda è che il risparmio privato ammonta secondo stime autorevoli a tre-quattro volte il passivo statale. A differenza della bacchettona Olanda, le cui famiglie sono fortemente indebitate.

La terza è che in un clima debitorio generale la finanza anglosassone a differenza del 2011 se ne guarderà bene a speculare contro l’Italia, perché un suo default creerebbe un buco nero capace di inghiottire l’intero sistema finanziario globale.

Conviverci non vuol dire indulgere su un sistema che lascia alle future generazioni un pesante fardello. Già, perché l’enorme debito pubblico accumulato nel corso degli anni è prevalentemente il risultato della convergenza di due dinamiche parallele: da un lato l’evasione fiscale, dall’altro l’uso disinvolto del denaro pubblico da parte della politica spesso fino alla scelleratezza.

È proprio il caso di dire O si cambia, o si muore.

Nel prossimo articolo ci occuperemo del lavoro.

Bruno Bonci

(foto in primo piano, il premier Mario Draghi)

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