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Attualità

L’ARTICOLO Fare memoria degli anziani che muoiono nel silenzio di questa pandemia

Sono i volti del Crocifisso e si portano via parte della nostra civiltà senza poterla condividere con i giovani

CASTELPLANIO, 2 maggio 2020 – «I giovani hanno la memoria corta, e hanno gli occhi per guardare solo a levante; e a ponente non ci guardano altro che i vecchi, quelli che hanno visto tramontare il sole tante volte».(Giovanni Verga).

Il noto fondatore della Libera Università dell’Autobiografia, parlando dell’età avanzata, scrive: «L’autunno è un tempo di metamorfosi sublimi e incantamenti, di distacchi e di ritorni, di abbandoni e di rinascite. L’autunno è un’irruzione della natura che pare consolare la terra per ciò che le accadrà. Non fine, non morte senza appello: ma passaggi e transizioni nei quali è possibile intuire – oltrepassando l’inverno – i presagi della primavera, che – un altro paradosso – ha molti punti di contatto con il tempo degli addii. L’autunno è un non-tempo da amare: perché è la parentesi più propensa a insegnarci i piaceri della solitudine appagante, le beatitudini del silenzio, le euforie dell’intimità. In tali doti e doni, da accettare con gratitudine, si nascondono la sua grandezza e il suo misconosciuto carattere sapienziale». (Duccio Demetrio, Foliage, 2018)

 Amare l’autunno può essere una filosofia di vita. Può essere la vita.

Adriana Zarri, teologa, giornalista e scrittrice, già anziana, annotava nel suo diario: «L’autunno è tempo di raccolta, ma di una seminagione lontana; ed è tempo di semina, per un lontano raccolto. È il tempo di gettar via piangendo, come dicono i salmi, per poi raccogliere in letizia. Ma il pianto dell’autunno è un pianto dolce, consolato, una tenera malinconia che sfuma con le nebbie mattutine, incontro a un sole pallido che illumina senza accecare e bacia senza ardere. Autunno di frutti caduti, autunno di foglie secche, autunno di nebbie grigie, autunno tuo: del tuo passaggio silenzioso, del tuo amore paziente, della tua attesa lunga… l’autunno «periodo in cui si spilla il vino nuovo e si celebrano i santi» (da Quasi una preghiera).

Qualche anno fa abbiamo intervistato donne anziane del territorio marchigiano, chiedendo loro di raccontarsi. Tutte vissute nel secolo scorso.

Sapevano che le loro testimonianze sarebbero state pubblicate in un libro (che uscirà prossimamente in forma riveduta con la casa editrice “Prospettive”).

Hanno accettato di buon cuore, perché il loro più grande desiderio è trasmettere alle nuove generazioni l’esperienza vissuta con fatica e tanto amore. Il loro tempo, il secolo scorso, è stato un periodo di grandi evoluzioni sociali, di faticosa ripresa economica. Le donne hanno tutelato la famiglia, i valori morali, il lavoro e il matrimonio. Hanno lottato per essere riconosciute nei loro diritti sociali; sono state donne resilienti, capaci di affrontare con dignità le grandi prove della guerra, con tutte le conseguenze, compresa la povertà. Si sono rimboccate le maniche per affrontare il lavoro e reggere così l’economia della famiglia. Molte di loro si sono trovate sole ad affrontare tempi dolorosi e bui! I loro mariti erano in guerra.

Ascoltiamo alcuni passaggi delle loro autobiografie.

Iole

«Ho vissuto una giovinezza poco bella. Ho perso i miei genitori quando ero poco più che ragazzina. Fin da giovane ho dovuto lavorare molto. Anche da sposata non ho potuto fare a meno di faticare per guadagnarmi la vita. Ho fatto diversi lavori: la contadina, l’operaia presso le industrie dei cavoli etc... Dovevamo raccoglierli e metterli nelle cassette per spedirli nei camion. In questa zona c’è sempre stata la coltivazione dei cavoli. Ho fatto anche la magazziniera. Ma il periodo più lungo è stato quello del lavoro presso la fornace di mattoni. Era molto duro, in compenso i padroni mi volevano bene. Quando i mattoni uscivano dalla fornace erano bollenti e si può immaginare il pericolo di scottature. Ma quello era il lavoro offerto a noi donne per guadagnare. Il padrone ci diceva: “Ragazze, se ben cominciate, vi troverete bene nella vita e riuscirete a restare in questo posto per molto tempo”. Infatti fu così. Cercavo di non perdere mai tempo; lavoravo senza chiacchierare. Così producevo molto. Mi sentivo ben voluta».

Francesca

«Durante la guerra i tedeschi passavano per le case di campagna. Così per non correre pericoli andai a stare da mia madre e lì mi nacquero due gemelle con un parto prematuro, all’ottavo mese di gravidanza. Erano piccolissime. Le battezzammo subito perché il medico aveva detto che sarebbero morte. Il giorno dopo il parto fummo costrette ad andare nel rifugio. Io misi le due gemelle in una scatola di scarpe di mio marito tanto erano piccole e ci nascondemmo. Passai tutta la notte sveglia perché avevo paura che le gemelle morissero. Invece sono vissute, anche perché ho dato loro il mio latte visto che ne avevo parecchio. Poi le bombe. Non avendo più la casa dove ero vissuta da sposata rimasi da mia madre.  Finita la guerra, quando le bambine avevano tre mesi, tornammo nella nostra casa. In quel periodo passavano i tedeschi in ritirata: carri armati e soldati. Un soldato venne da me in camera e mi chiese di lasciargli una bambina, visto che ne avevo due. Una la voleva portare alla sua mamma perché le piacevano i bambini. Quella volta mi spaventai moltissimo. Chiamai i miei familiari, mi alzai in piedi e strappai via la bambina per difenderla».

Maria

«Se non fosse stato per la guerra saremmo vissuti bene. La guerra ci ha sepolti tutti. Noi poi che stavamo di casa vicino all’acquedotto che faceva rumore, non sentivamo neanche l’allarme e chiedevamo alla comari di avvisarci. Un giorno mentre scappavamo siamo stati sepolti dalla terra alzata dalle bombe. Abbiamo trovato le zolle di terra persino in soffitta».

Lina

«Ho vissuto il giorno del matrimonio come un giorno di dolore, perché era durante la guerra. Dopo un mese infatti mio marito è ripartito, è andato alla marina di Rimini. La fortuna è stata che tornato dall’Albania non c’è più tornato. Da Rimini veniva qualche volta perché lo chiamavo con la scusa che i genitori stavano male. Almeno potevo vederlo. Poi alla fine della guerra tornò finalmente. La guerra fu molto brutta. Mio marito mi diceva di non uscire neppure per chiudere i polli. Cenavamo allo scuro quando c’erano i bombardamenti. Vedevamo volare le pallottole da un colle all’altro».

Ai pronipoti di queste vigili sentinelle di un’epoca che non potrà mai tramontare dalla memoria della storia, verrà chiesto in futuro di narrare ai loro figli le lacrime, le sconfitte, le vittorie del triste e insidioso periodo dell’attuale pandemia. Ancora oggi, in questa notte di prova, di fronte alla sofferenza e alla morte, bagnata da lacrime di dolore, la donna è in prima linea. Quante di loro affrontano con coraggio l’insidia del virus che infetta la vita!

Papa Giovanni Paolo II, attorno all’anno 2000, profetizzò che alle porte del Terzo Millennio tutti avremmo dovuto guardare avanti e accogliere la nuova primavera della Chiesa e della società.

«Ora dobbiamo guardare avanti, dobbiamo prendere il largo, fiduciosi nella parola di Cristo: Duc in altum! Nella causa del Regno non c’è tempo per guardare indietro, tanto meno per adagiarsi nella pigrizia. Molto ci attende… Il nostro è tempo di continuo movimento che giunge spesso fino all’agitazione, col facile rischio del “fare per fare”. Dobbiamo resistere a questa tentazione, cercando di essere prima che di fare. Ricordiamo a questo proposito il rimprovero di Gesù a Marta: “Tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno” (Lc 10,41-42)». (Novo Millennio ineunte).

Chi avrà il compito di tramandare ai posteri i tratti di questa nuova primavera promessa? Sotto la cenere della dura prova sono nascosti i segni del suo fiorire. Ne godremo se sapremo scoprire che l’importante è “essere”, prima del “fare”!

Matilde, la centenaria, con gli occhi lucidi di commozione rivela il segreto della rinascita: «Oggi direi alla gente che prima di tutto occorre pregare perché il Signore è al nostro fianco. Se non ci fosse l’aiuto del Signore non si andrebbe avanti e non si farebbe niente. Bisogna stare sempre vicino al Signore».

Papa Francesco ci esorta a «“guardare il crocifisso” soprattutto quando siamo stanchi del viaggio della vita».

Gli anziani che muoiono nel silenzio di questa pandemia, sono i volti del Crocifisso. Si portano via parte della nostra civiltà, senza poterla condividere con i più giovani. Sta a noi farne memoria con rispetto e grande stima, per quanto hanno vissuto e realizzato con un forte “amor patriae”!

Suor Anna Maria Vissani

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