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JESI L’istituto Gramsci ricorda i 100 anni del Pci

«Una vita trascorsa impegnandosi per migliorare la condizione della persone più deboli è una vita spesa bene»

JESI, 23 gennaio 2021 – Il 21 gennaio 1921 nasce il PCdI. A Livorno, al Teatro Goldoni, dal 15 gennaio 1921 sono in corso i lavori del 17mo Congresso del Psi. Il 21, appunto, una votazione dei delegati accoglie parzialmente la richiesta dell’Internazionale Comunista dei cosiddetti 21 punti programmatici e di espellere dal Partito gli esponenti riformisti. Per protesta un gruppo di delegati abbandona il Goldoni e si avvia, cantando l’Internazionale, al Teatro San Marco e fonda il PCdI, che poi dal 1944 diventerà PCI.

Tra i fondatori c’è il gruppo di Ordine Nuovo di Torino (Gramsci (foto in primo piano), Togliatti, Tasca, Terracini ed altri)
e la stragrande maggioranza della Federazione Giovanile Socialista. Il nuovo partito condividerà il destino di tutti i Partiti Comunisti europei: nato come strumento di una rivoluzione ritenuta imminente sul modello di quella Sovietica del 1917, dovette sopravvivere in una situazione che, in poco tempo, vide l’Italia laboratorio di una forma di reazione inedita destinata a segnare in profondità la storia del Paese: il fascismo. Durante la dittatura fascista, i comunisti subirono le dure conseguenze della repressione: il
Tribunale Speciale si accanì soprattutto con loro. Nello stesso tempo, però, si formò un gruppo dirigente in grado di tenere in vita una struttura organizzata e di elaborare una analisi approfondita dei caratteri della dittatura fascista come regime reazionario di massa in grado di organizzare il consenso delle masse popolari.

Antonio Gramsci, condannato dal Tribunale Speciale nel giugno del 1928 a più di venti anni di carcere, nei suoi Quaderni articolerà una lucida ed originale analisi sia del fascismo che della società italiana, forse il contributo teorico più alto mai scritto sull’argomento. La Guerra di Spagna (1936-1939) segnò il punto di partenza dell’elaborazione di una strategia politica fondata sull’unità delle forze popolari ed antifasciste indispensabile per dar vita ad una democrazia di tipo nuovo, avanzata, dove il fascismo fosse superato e cancellato. Tale impostazione unitaria, pensata per la Spagna, fu anche la meta assegnata, in Italia, alla lotta antifascista e poi, dal luglio ’43, partigiana, con i comunisti in prima linea.
Terminata la guerra, il Pci individuò nella Costituzione repubblicana il terreno decisivo dell’impegno politico. Da qui lo sforzo tenace nell’Assemblea Costituente per definire un progetto di Stato elaborato
unitariamente con le forze che avevano fatto parte dello schieramento antifascista.

Per molti anni il problema della difesa e dell’attuazione della Costituzione si pose al centro della lotta politica italiana e anche le lotte sociali guidate dai comunisti ebbero come principale punto di riferimento le norme programmatiche della Costituzione. In tal modo si videro rovesciate le concezioni tradizionali dello Stato italiano che volevano collegate con la sovversione e il ribellismo le aspirazioni dei ceti subalterni. In virtù di ciò, il Pci svolse una funzione di educazione civile e di nazionalizzazione delle masse popolari che, consolidando la legittimazione democratica del partito, contribuì a difendere e ad assicurare lo sviluppo della democrazia parlamentare in Italia che, dal dopoguerra ad oggi, verrà minacciata più da destra che da sinistra. I suoi militanti vennero educati, nelle strutture del partito, ad un costume democratico che rappresentava un fenomeno di crescita civile, trasformando i sudditi e i ribelli in cittadini.

Il Pci, pertanto, da un lato fu il garante delle prerogative del Parlamento e dall’altro costituì un fattore di integrazione del mondo del lavoro in quello che era un nuovo Stato democratico e costituzionale.
In tale quadro, soprattutto dagli anni Sessanta e Settanta, il Pci approfittò dell’allargamento degli spazi democratici che si aprivano e riuscì ad essere l’interlocutore privilegiato di un movimento di lotte sociali, operaie, studentesche, femminili che per intensità e durata ebbe pochi riscontri nei paesi a capitalismo avanzato. Il partito fu, con la Cgil, in prima linea nella lotta contro il terrorismo eversivo; lo Stato bene o male resse perché le masse di sinistra lo vedevano come una propria creatura, da riformare ma non da abbattere.

Certo ci furono, in questa storia, errori, ad esempio quello di non aver intrapreso per tempo un cammino verso una posizione internazionale autonoma dall’Urss. Si arrivò a ciò definitivamente nella seconda metà degli anni Settanta. Troppo tardi. Se fosse avvenuto prima probabilmente il Paese avrebbe sperimentato scenari politici e sociali più avanzati.

Ma la storia non si fa con i se e con i ma. Tante vicende e molte variabili la determinano. La storia del Pci, come disse Emanuele Macaluso, che in questi giorni ci ha lasciati, ha offerto, comunque, un contributo fondamentale a tante italiane e a tanti italiani per dare un valore alle loro esistenze perché una vita trascorsa impegnandosi per migliorare la condizione della persone più deboli è una vita spesa bene”.

Istituto Gramsci Marche
sez.Jesi e Vallesina

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