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L’ARTICOLO Le conseguenze del Covid sul debito pubblico globale

La febbre speculativa, complici i lockdown e i sussidi dati a pioggia, ha modificato la fisionomia del mercato

A seguito del Covid 19, gli Stati, nel tentativo di evitare il collasso economico e la disgregazione sociale, memori della crisi del ’29 e sull’onda di una scuola di pensiero economica, chiamata Mmt (Modern monetary theory), hanno attivato un’enorme accelerazione del debito.

Quello globale è salito alla cifra impronunciabile di 272.000 miliardi di dollari, circa il 365% del Pil mondiale. Nell’emettere questo debito i Paesi avanzati hanno prevalso su quelli emergenti. In particolare gli Usa, approfittando del fatto che il dollaro è la valuta globale più usata per le transazioni commerciali e come riserva, hanno prevalso largamente.

Sarà sostenibile un tale debito?

Per la Mmt non c’è alcun problema purché il debito venga emesso nella propria valuta e venga acquisito dalla banca centrale e dai propri risparmiatori. In sintesi il modello Giappone a cui, nonostante un rapporto debito/Pil prossimo al 300%, le agenzie di rating assegnano una valutazione elevata.

Si noti bene che l’euro, secondo solo al dollaro come moneta globale, è la valuta di un’area politico economica (Ue) e non può essere emesso da un singolo Paese, per cui l’Italia non è nella stessa situazione del Giappone.

Ma da dove sono scaturiti tutti questi soldi? Semplice, sono stati stampati!

In pratica gli Stati hanno emesso obbligazioni ( es Btp, Oat, Bund, Trasures ), le banche centrali hanno prodotto liquidità e li hanno acquistati. In questo modo, seppur rinunciando alla propria autonomia, hanno potuto tenere i tassi di interesse bassi, a volte negativi, bypassando il mercato. Questa pratica che altro non è che la monetizzazione del debito ha un nome esotico: quantitative easing (Qe ) .

Quando irrompe il Covid 19, il Qe era già in atto dal 2008 per salvare le banche dalle conseguenze dell’implosione della bolla immobiliare legata ai mutui subprime: di che si è trattato?

All’incirca nel 2000, dopo l’esplosione della bolla internet, il governo americano pensò di rilanciare l’economia favorendo l’acquisto della prima casa attraverso due agenzie pubbliche che elargivano mutui, Fannie Mae e Freddie Mac. L’iniziativa aveva reso effervescente il mercato immobiliare tanto che i più spericolati avevano trovato un sistema facile per arricchirsi: si acquistava una casa mediante un prestito bancario e, poiché le quotazioni crescevano, dopo un po’ la si rivendeva lucrando sulla differenza; e così via di nuovo.

Ad un certo punto poi, a qualche banchiere venne un’idea brillante per scaricare il rischio di insolvenza dei mutui su qualcun altro: questi venivano frazionati e re-impacchettati in obbligazioni con un buon rendimento da destinare al mercato. Tali prodotti grazie anche alla complicità delle Agenzie di Rating (Standard & Poor, Moody) furono collocati con successo presso varie istituzioni finanziarie internazionali come banche, assicurazioni, fondi pensione, fondi d’investimento.

Sull’onda dell’eccitazione si andò oltre

Dato che il rischio ricadeva su altri, qualcuno si domandò: perché non coinvolgere nella bonanza anche la clientela poco abbiente, subprime appunto, e così fecero. Era una festa. Chi guadagnava con la speculazione, chi con le commissioni sui mutui. Le Ferrari si vendevano come il pane, l’edilizia andava in grande spolvero trainando il Pil. Così le autorità chiudevano un occhio su tutto.

A questo mondo, però, niente è per sempre e così neppure la crescita continua delle quotazioni immobiliari: quando la bolla scoppiò si generarono insolvenze a catena che causarono il fallimento di importanti istituzioni finanziarie di cui si ricorda Lehman Brothers. Con le code dei risparmiatori per ritirare i propri depositi e la crescente diffidenza tra istituti di credito la situazione prese ad avvitarsi e ciò spinse i governi e le banche centrali (Fed, Bce, BoE, BoJ, etc) a intervenire massicciamente inondando il sistema di liquidità attraverso il quantitative easing.

Le misure avrebbero dovuto avere un carattere temporaneo e invece si è presto scoperto che della droga della liquidità, probabilmente a causa di un sistema che non redistribuisce la ricchezza prodotta, accoppiato all’invecchiamento della popolazione, non se ne può fare a meno.

In risposta all’emergenza pandemica le banche centrali correttamente hanno amplificato il Qe già in pista, con l’effetto collaterale però, di accelerare la concentrazione di ricchezza e la formazione di una bolla finanziaria prevalentemente legata alle aziende della Silicon Valley quotate nel Nasdaq (listino tecnologico).

La febbre speculativa, complici i lockdown e i sussidi dati a pioggia (helicopter money) ha modificato la fisionomia del mercato coinvolgendo traders non professionisti e perfino adolescenti che, organizzati in piattaforme (es. WallStreetBets), riescono a produrre migliaia di ordini sincronizzati capaci di mettere in difficoltà persino i giganti della speculazione, gli hedge funds, in barba agli algoritmi dei computer.

Si è creata una frenesia speculativa che coinvolge di tutto: dall’argento alle criptovalute, causando enormi distorsioni

Così Tesla, una piccola azienda automobilistica, ai prezzi di borsa è capitalizza più della Volkswagen. Il proprietario, Elon Musk, si è buttato a capofitto nella speculazione sul bitcoin, investendoci 1,5 miliardi di dollari. La questione è che la deflazione imperante comprime non solo i salari ma anche i profitti, cosicché anche le imprese preferiscono gli investimenti speculativi a quelli produttivi.

Ora è lecito chiedersi se nella storia passata è mai accaduto qualcosa di simile e, eventualmente, come è andata a finire.

Bruno Bonci

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