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Jesi “Frankenstein (a love story)”, puzzle di tormenti

Nell’ambito della stagione di prosa 2024 del Teatro Pergolesi è andata in scena la rappresentazione del capolavoro di Mary Shelley che non segue il romanzo dell’autrice ma ne allarga ad altri piani il messaggio

Jesi – A fare un bilancio, mi piace una vita vissuta, fino ad oggi, a cercare, fra le pagine di libri e fra le quinte di teatri, un mito, un personaggio, una storia che durasse, nella testa, per sempre, che non restasse semplice citazione pescando negli anfratti della memoria.

Mary Shelley scrisse Frankenstein che aveva diciannove anni.

Ed ho amato subito questo capolavoro di una narrativa che sterzava e affossava i miti della scrittura di duecento anni fa. Aveva talento, la ragazza, ma le vicissitudini della vita e dell’esistenza passata, pur breve sino a lì, le fecero creare la storia di un mostro che avrebbe potuto, con le sue tribolazioni, rappresentarle.

Il libro, poi il film (e i film) realizzati, hanno confuso i più, attribuendo a Frankenstein la figura del mostro e non quella del dottore che l’aveva invece creato. Come? Mettendo insieme i pezzi delle anormalità che vivono dentro di noi. Perché di questa abbiamo bisogno nella bufera che la vita ci propone ogni giorno, con l’angoscia e il terrore come filo conduttore.

Questo spettacolo, intitolato Frankenstein (a love story) che abbiamo seguito al Teatro Pergolesi, nell’ambito della Stagione di Prosa, non segue che a tratti il romanzo della Shelley anzi, allarga ad altri piani il messaggio che vuole fare arrivare al pubblico, costruendo un puzzle sulla contemporaneità e sui tormenti, fantasmi che muovono la crescita di un io creatore in ciascuno di noi.

Lo spettacolo, diretto da Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande, propone in scena tre personaggi – Mary Shelley (Alexia Sarantopoulou), Victor Frankenstein (Silvia Calderoni) e la Creatura (lo stesso Casagrande) – che si alternano in monologhi che riprendono soltanto frammenti del testo originale del romanzo, muovendosi in una scenografia molto minimale che, con teli di plastica bianca o trasparente, riproduce un paesaggio naturale glaciale e inospitale. 

Esistono poi due piani in relazione ai contenuti: il primo, più interno, è una riflessione di fondo sull’umanità, sulle sue caratteristiche, sui desideri, sui limiti. Sulla sua sete: di conoscenza, di amore, di azione sulla realtà, di uscita dalla solitudine.

Dentro, troviamo altri temi, uno appoggiato all’altro: dal femminismo alle intelligenze artificiali, dai diritti riproduttivi al razzismo, dalle situazioni che derivano dalla maternità alla povertà, dalla solitudine individuale alle marginalità e all’esclusione, dalle dipendenze alla possibile estinzione della specie umana per i cambiamenti a cui stiamo sottoponendo il nostro pianeta, dalle manipolazioni genetiche e la bioingegneria alle identità sessuali e di genere.

Ecco, ci sono mille interpretazioni per vivere da vicino questo lavoro che cavalca stili, ritmi, elementi gotici e grotteschi. Per arrivare alla fine e sentire «E’ un mio diritto riprodurmi liberamente», oppure leggere «Addio ad ogni specie».

Tutto chiaro, ma ho sbagliato a non seguire l’incontro che la Fondazione aveva organizzato nel pomeriggio presso le Sale Pergolesiane, per avviare il pubblico a interpretare e comprendere a fondo la dinamica di base di questo racconto che purtroppo non mi ha permesso di godere appieno i temi e le suggestioni che avevo trovato, alcuni anni fa, nella cosiddetta sperimentazione.

Incontro alla fine, dopo gli applausi agli attori, tutti molto convincenti, con l’assessore alla cultura Luca Brecciaroli e la Compagnia.

Senza l’amore, in fondo, qualsiasi amore, siamo tutti mostri.

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