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OSIMO La statua di Nazareno Rocchetti per la Lega del Filo d’Oro

Grande uomo e artista, spiega: «Io ci metto tutto me stesso, anche la mia spiritualità»

OSIMO, 8 agosto 2021 – Una volta ho descritto Nazareno Rocchetti, grande uomo, artista e amico, così: “Figlio di contadini, genitori e figli abituati a vivere a contatto con la natura vicino a Filottrano, dove non si mangiava mai regolarmente ma quella era la “regola” di chi ha visto la luce in un dopoguerra che stava per tradursi, anni dopo, in boom economico, Rocchetti ha seguito la strada del suo istinto“.

“Ha frequentato olimpiadi, campionati del mondo, europei, ha sentito fra le sue mani corpi che di lì a poco avrebbero dato all’Italia, ed a lui in particolare, una grande soddisfazione”.

Resto della stessa idea di qualche anno fa. Nazareno ha un cuore grande che supera i 2 metri e 37 di Tamberi e veloce più dei 9 secondi e 80 di Marcell Jackobs, ed è conosciuto ovunque.

Prima, anni addietro, come fisioterapista della Nazionale Italiana di Atletica Leggera. Trai i suoi atleti più noti figurano personaggi come Pietro Mennea, Sara Simeoni, Gabriella Dorio, Giovanna Trillini, Gelindo Bordin, Valentina Vezzali.

Tempo fa, il quotidiano Repubblica dedicò una pagina e mezza a un’intervista a cuore aperto con Rocchetti, perché dietro a ogni impresa c’è certo la capacità e ci sono doti e talento dell’atleta ma anche la preparazione certosina di chi prepara ed educa il tuo fisico e la mente a imprese quasi impossibili.

Rocchetti, che gli antichi avrebbero definito “lungocrinito” e che io chiamo “Il pirata” da sempre, è un viaggiatore che ha conosciuto tanti porti, ci si è fermato, in ciascuno di essi ha appreso qualcosa della vita che lo ha fatto diventare grande.

Poi l’incontro con l’arte

«Tutto vero. Ho incontrato l’arte con José Guevara, che perfezionò la tecnica pittorica detta “òleo pòr combustion del pigmento” grazie al critico d’arte Armando Ginesi, che ha sempre creduto in me. Mi affascinava il suo modo di creare un’opera. Mi sono messo a lavorare la materia proprio come il maestro spagnolo mi aveva consigliato. E via per la mia strada. Ho prodotto moltissimo, ero in trance artistica, cosa di cui sono fiero, fino a che una mattina mi sono alzato
ma non mi sentivo come sempre, pronto a mettermi al lavoro. Stavo male, avevo fitte e dolori forti. Era il mio fegato che mi ha mandato un messaggio, chiaro e forte».

«Il medico era scettico sui valori che emergevano dalle analisi e dagli esami che gli avevo portato. In sostanza, una parte di colpa era da assegnare ai farmaci che avevo assunto per le mie soventi cefalee e le esalazioni di sostanze chimiche che provenivano quando preparavo i colori e dipingevo. Ho subìto una dieta ferrea, davvero pesante. Per forza sono passato a lavorare definitivamente materiale come il legno e soprattutto il bronzo. Il bronzo mi affascina, mi fa pensare all’antichità, ai bronzi di Riace, ai cavalli di Pergola. Umilmente mi sono messo alla prova e ho cominciato a inventare, creando statue, busti. E infine mi sono inventato Il Bronzo di Avenale, a Ripe di San Ginesio».

Il Bronzo di Avenale, a San Ginesio

Sì, ma prima hai fatto un enorme dono alla Lega del Filo d’Oro di Osimo

«E’ una grande statua, quasi otto metri, che si muove dalla terra verso il cielo, allegoria del tempo che stiamo vivendo. E’ lì, che svetta quasi con pudore, immersa in mezzo agli ospiti sordi, ciechi e muti della Lega ad Osimo, che tendono le proprie braccia e il volto verso l’alto, come a cercare un Lui liberatore da ogni sofferenza, sotto un volto inquietante, dai tratti centroamericani, situato al centro della struttura e che sta a segnare la Natura, l’interprete e oggetto principale delle nostre prepotenze».

Perché questa scultura?

«Perché nella vita qualche volta si cammina veloci e, purtroppo, ci imbattiamo, senza “vederli”, in casi della vita che ci sembrano tanto lontani ma che in realtà sono accanto a noi. Mi sono chiesto se fosse giunto il momento di fare qualcosa per questa straordinaria associazione, certo forse sempre poco di fronte a quello che stanno sopportando ospiti ed educatori, ma un segnale, come dimostrano i testimonial Arbore e Marcorè, significa non solo solidarietà spiccia, ma partecipazione assoluta. Ma confesso che non ho subito “lavorato” quel magnifico legno, donatomi da Franco Moschini, un genio, un “imprenditore del bello”, come lo definì Giulio Alberoni. Anzi, ho aspettato che mi parlasse, mi desse il
modo di affondare i miei attrezzi e mi segnasse la strada da seguire. Ho pensato alle mani, già, le mani, l’unico modo che gli ospiti della Lega del Filo d’Oro hanno per cercare il cielo e un contatto, creando solidarietà fra i corpi, oggi sono l’elemento mancante».

«L’amore. Interrotto da qualcosa di crudo, quel volto cui facevi cenno, che è la natura matrigna con la quale dobbiamo fare sempre i conti, le dobbiamo rispetto, impedire che si ribelli. Non possiamo vendere la terra né comperare il cielo, è come se disprezzassimo una nostra madre. E con Neri Marcorè e il presidente Rossano Bartoli, – che hanno inaugurato la mia statua – dobbiamo lavorare uniti, insieme agli educatori, per dare a questi ospiti la possibilità di avere il mondo accanto a loro».

La tua è l’arte del cuore, dici spesso. Cioè?


«Io ci metto tutto me stesso, anche la mia spiritualità. Curiosità pura, la tua. Ho realizzato il corpo di una donna velata come se fosse un Cristo crocefisso, ma senza croce cui poggiare le spalle, con le braccia che sembrano voler unire, coinvolgere, mettere insieme l’intera umanità. Il mio Cristo delle Marche? Da dove è collocato, si possono vedere tutte le province, e sarebbe bello se il governatore Acquaroli potesse vedere da lassù la sua regione, col Cristo che le protegge e le abbraccia».

Giovanni Filosa

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